Oggi l’Europa, o meglio l’Unione Europea, è argomento ostile,
quasi fosse la colpevole aggregata unica della crisi globale che ha colpito l’Occidente.
Si parla di fiducia, di condivisione e di sistema di rigore
che impone “lacrime e sangue” per risanare bilanci e salvare gli Stati più in deficit, vedasi Grecia (ma non solo).
“L’Europa impone” e fra le righe si legge “Germania dice che” e, così, ci si
sente vassalli di un reame più che Stati membri di un’entità economica e politica unitaria.
L’Inno alla gioia
pare ormai un ironico e sardonico canto
del cigno per un’unità disomogenea che stenta a “prendere il volo”.
I media fanno rimbalzare in
loop le parole: crisi, tassazione, disoccupazione e similia, concludendo che manca
la “fiducia”, la base di tutti i rapporti umani in senso trasversale e
circolare.
Fidarsi non è per nulla
scontato, né semplice in un momento come questo, dove si sgretolano tutte le
assodate certezze sul presente e sul futuro, ma viene a deficere a monte qualcosa di ancora più essenziale, a mio avviso,
la capacità di sentirsi uno Stato
sovranazionale unico formato da macro regioni.
Si dovrebbe prendere a
modello un sistema statale di tipo americano, dove, a discapito delle
differenze locali, vi è un’unità forte rappresentata dal suo presidente e dal
fatto di sentirsi prima di tutto “americani”, di fatto, poi, pure loro sono un melting pot di recente storia ma non è
un limite, semmai, un fattore di coesione ulteriore.
All’Europa manca l’orgoglio di
appartenenza e una vera regia
unitaria a livello economico e
politico, senza una predominanza di uno, o pochi paesi; le decisioni e i
piani programmatici d’intervento per la crescita dello Stato Europa dovrebbero
costruirsi in ottica corale e a vantaggio di tutti, o meglio di una, l’Europa.
Per diventare davvero un
colosso competitivo sui mercati mondiali, potenziando, di fatto, l’euro e la sua “zona” bisogna abbandonare i particolarismi e usare la logica
razionale economica della scelta
dell’eccellenza: di idee, di progetti e di sistemi economici e produttivi,
per arrivare ad un’uniformità che
possa migliorare la qualità della vita
attraverso la crescita.
Fondamentalmente noi
italiani recepiamo poco, male e tutto il positivo lo lasciamo fuori dalla
porta, nascosto sotto lo zerbino, per non cambiare il nostro modo di fare tuttoitalico d’ancien régime: burocrazia d’altri tempi, balzelli d’ogni
tipo, irregolarità, clientelismo, difficoltà d’accesso al credito, scarso
sostegno alle imprese, concorrenza irrigidita e si potrebbe andare avanti
all’infinito.
Se
si selezionasse in modo ottimale e super partes tutto ciò che di meglio
esiste sul suolo europeo, se si imponessero leggi sovranazionali in materia economica e di sviluppo concreto
recepite in modo unitario da tutti, se l’economia
fosse il perno d’unione a saldare tutte le cellule verso obiettivi comuni e condivisi si potrebbero finalmente raggiungere standard
uniformi di qualità della vita, ridisegnando la cultura della sostenibilità in tutte le declinazioni, oltre la
crisi.
B. Saccagno
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