Professore di Storia
Medievale all’Università del Piemonte Orientale, scrittore
Alessandro Barbero è professore universitario, con
una lunga e brillante carriera nel campo della ricerca e dell’insegnamento di
una materia meravigliosa quale la storia medievale.
Come, e quando, è nata la
voglia di diventare anche un romanziere di successo?
«Beh, intanto puntualizziamo, a me non è venuta, a un certo punto
della mia vita, la voglia di diventare un romanziere di successo, mi è venuta
la voglia di scrivere dei romanzi, senza affatto sapere se avrebbero avuto
successo, anzi, senza sapere neanche se sarebbero stati mai pubblicati.
È successo abbastanza
presto nella mia vita, dopo la metà degli anni Ottanta, quando mi avvicinavo
alla trentina, ero già storico di mestiere, scrivevo per mestiere - ma libri e
saggi di ricerca, di taglio accademico, che è quello che innanzitutto gli
storici devono scrivere - e mi sono reso conto che certi argomenti vivevano
dentro di me, mi appassionavano, mi spingevano a leggere continuamente, a
cercare continuamente nuove notizie, e si trattava però di argomenti sui quali
non avrebbe avuto senso che io, medievista, mi mettessi a fare ricerca; e
dunque a forza di accumulare letture, fotocopie, schede, ritagli di giornale mi
è venuta spontanea l'idea di farne dei romanzi.
Quegli argomenti erano la
battaglia di Jena del 1806, e la perestroika
di Gorbaciov, che non era un fatto storico, ma stava accadendo in quegli anni.
Di lì sono nati i miei
due primi romanzi, a cui ho lavorato in parallelo per un decennio, anche se poi
ho finito prima Bella vita e guerrealtrui di Mr. Pyle, gentiluomo e solo due o tre anni dopo Romanzo russo».
Lei ha una straordinaria capacità di creare storie
intessute di trame ad intreccio fra reale, verosimile e invenzione, con un
delicato equilibro che rende la Storia godibile e la narrazione delle vicende
dei protagonisti reali, seppure immaginarie, qual è il suo segreto?
«D'istinto mi verrebbe da
dire che non c'è nessun segreto, i libri si scrivono ed è il gusto a
controllare se quello che stai via via scrivendo funziona.
Poi, dato che mi
costringete a pensarci, per quanto riguarda specificamente la fusione armoniosa
di realtà e invenzione, credo che il segreto sia nella assoluta verosimiglianza
dell'invenzione, ma intendendo la verosimiglianza in un modo molto preciso:
ogni epoca ha i suoi gusti e le sue convenzioni, le sue regole di
comportamento, le cose che si possono fare e dire in pubblico e quelle che sono
tabù, e chi scrive un romanzo ambientato in un dato periodo storico deve avere
un'assoluta familiarità con tutto questo, quella familiarità che deriva
dall'aver letto tutto quello che è stato scritto allora, e dunque i suoi
personaggi devono muoversi, reagire, pensare come avrebbero fatto persone
dell'epoca, senza lasciarsi influenzare da quello che farebbero invece l'autore
o il lettore, gente dell'epoca nostra.
Se ci si riesce, allora
l'invenzione non si distingue più dalla realtà.
Direi che in questo sono
particolarmente importanti i dialoghi: io ho sempre dato moltissima importanza
al dialogo, che dev'essere non solo credibile e suonare autentico in generale,
ma dev'essere anche credibile come dialogo dell'epoca».
È uno scrittore prolifico, sia in campo
scientifico che narrativo.
Modi e generi differenti, pubblici eterogenei e
obiettivi di comunicazione diversi.
Come riesce a muoversi attraverso campi
così “lontani” mantenendo sempre alta la qualità?
Quali sono le caratteristiche
che bisogna necessariamente avere per essere un buon scrittore e un brillante
divulgatore?
«Bisogna saper scrivere
bene!
Dopodiché, è possibile
che aver letto moltissimo e precocemente contribuisca molto a questo risultato,
ma non sono neanche sicuro che sia indispensabile.
Alla fine è più probabile
che chi sa scrivere bene abbia, semplicemente, qualche parte del cervello, che
presiede alla scelta e alla concatenazione delle parole, più sviluppata o
meglio oliata di altre...
Quanto al muoversi fra
registri differenti, questo è ed è sempre stato un aspetto essenziale della
scrittura; avere cantieri diversi aperti nello stesso momento è eccitante e
costituisce uno stimolo intellettuale in più; e se i lavori sono diversi da un
cantiere all'altro, tanto meglio».
I suoi romanzi si muovono in un orizzonte crono
temporale che varca i confini della sua specializzazione, si sposta con
disinvoltura nel tempo raccontandoci storie diverse e sempre intriganti.
Dove
trova l’ispirazione?
«Ma l'ispirazione è della
stessa natura per ognuno dei libri che ho scritto, tanto per i romanzi che
hanno avuto successo di pubblico quanto per i più impegnativi libri accademici.
Ogni volta la spinta è la
stessa, ed è, all'inizio, l'attrazione per un argomento, la voglia di saperne
di più.
Si comincia a leggere, e
dopo un po' non si leggono più solo libri di altri autori, ma fonti, e ci si
rende conto che il libro che uno vorrebbe leggere su quell'argomento non esiste
ancora, e alla fine decidi che lo scriverai tu, quel libro.
Se poi il libro debba
essere un libro di storia o un romanzo, questa è una decisione che viene subito
dopo, in base a tante considerazioni; ma la partenza è la voglia di immergerti
in un periodo e in una vicenda, fino ad avere l'impressione di riviverla».
Oggi l’offerta letteraria è vastissima: quanto
contano la comunicazione, le conferenze e la presenza sui Media, anche in
programmi di divulgazione, per far conoscere li proprio libro e farlo diventare
un successo editoriale?
Crede che il Web sia un strumento utile per veicolare
il valore di un buon libro fra i lettori?
«La comunicazione conta,
credo, moltissimo. Il mercato dei lettori risponde in modo pressoché automatico
alla presenza in certe trasmissioni televisive.
Però solo una
ristrettissima élite di autori di best-seller accede a quelle
trasmissioni, che quindi le permettono di perpetuarsi automaticamente.
Al di sotto delle
comparsate televisive, le altre forme di comunicazione – recensioni,
presentazioni pubbliche, conferenze – contano fino a un certo punto; possono
servire a rendere noto un autore, a creargli un piccolo pubblico di fedeli,
meno a fare il successo di uno specifico libro.
Per questo direi che più
di tutto continua a contare il passaparola dei lettori; ed è soprattutto in
questo senso che la comunicazione sul Web sta diventando sempre più
importante».
La Storia, per molti, è considerata noiosa ed
inutile, seppure è parte del proprio DNA, del singolo e dell’umanità, e materia
di straordinario fascino, oltre che unica maestra per il passato, il presente e
il futuro. Molto spesso, durante l’iter scolastico, viene relegata in secondo
piano, a favore di altre materie, e il mestiere dello storico non è, di certo,
la carriera più consigliata ai giovani. V
uole raccontarci cos’è in realtà la
professione dello storico?
«Non sono del tutto
d'accordo con la formulazione della domanda. Secondo me nessuno considera
noiosa e inutile la storia, tant'è vero che gli scaffali delle librerie
crollano sotto il peso dei romanzi storici, e le folle accorrono a vedere Il gladiatore.
Quella che è considerata
noiosa è la storia come materia di insegnamento a scuola, e lì non è che si
possa dare del tutto torto ai ragazzi, perché la base della conoscenza storica
è un insieme di dati e date, assolutamente indispensabili, ma non certo divertenti
da imparare.
Il mio sommesso parere è
che anche imparare le formule chimiche o le equazioni è altrettanto noioso, ma
questo è un altro discorso.
Che poi la carriera dello
storico non venga consigliata ai giovani, mi pare un bene, ma questo non
succede mica perché la gente pensa che lo storico si annoia e fa un brutto
mestiere; succede perché si realizza che la società non può permettersi di
pagare che un numero limitato di storici, e quindi non sarà mai una carriera di
massa come l'ingegnere o il medico.
Io non credo di dire
niente di sorprendente se dico che lo storico è un privilegiato perché è pagato
per studiare, e marginalmente anche per insegnare, una materia che lo
appassiona profondamente e a cui dedicherebbe la sua vita anche se non lo
pagassero!
Del resto io conosco
molti medici, notai, fisici e chimici che nel tempo libero studiano la storia,
e addirittura scrivono libri di storia, e non esitano a confessarti che la loro
passione è quella; non conosco nessuno storico che nel tempo libero si dedichi
alla chimica o allo studio del notariato e rimpianga di non aver potuto fare
quella carriera».
La crisi contingente mette a dura prova anche le
Università: tagli, depotenziamento della ricerca, riduzione dell’offerta,
contrazione di strumenti, di fondi e di possibilità.
Ci faccia il suo personale
punto della situazione sul sistema universitario italiano contemporaneo.
«Rischiamo di fare un
elenco di lamentele, dimenticando che nonostante tutto l'Università continua a
funzionare e i giovani continuano a iscriversi...
Ma comunque, direi che i
problemi principali sono questi:
- il taglio di personale
che incide a casaccio, cioè in base ai pensionamenti e al divieto di
rimpiazzare i docenti che vanno in pensione, col risultato che in una facoltà
possono venire a mancare i docenti di materie cruciali, indispensabili, senza
che il Ministero se ne preoccupi minimamente, perché vede solo i numeri, non la
dimensione qualitativa
- la soluzione al
problema precedente, che è essa stessa un problema: cioè l'assunzione
indiscriminata e senza controlli di docenti a termine, pagati pochissimo,
scelti senza alcun concorso né controllo. Oggi i ragazzi che vanno a lezione si
trovano in cattedra o specialisti che per essere lì hanno passato (checché se ne
dica) durissimi concorsi, o dilettanti e/o disoccupati assunti per tappare un
buco, e questa è una situazione veramente intollerabile
- il sistema del 3+2 si è
rivelato un fallimento, perché peggiora nettamente l'esperienza universitaria
degli studenti.
La segmenta arbitrariamente;
la allunga anziché accorciarla come si credeva all'inizio (giacché nel nostro
paese di disoccupati la laurea breve non vale niente e tutti si iscrivono anche
alla specialistica); ha distrutto il senso della tesi di laurea, che prima era
il compimento di un percorso unitario di 4-5 anni, mentre ora bisogna fare una
tesina insulsa dopo 3 anni, e la tesi vera andrebbe fatta alla fine dei 2 anni
successivi, che sono un periodo troppo breve per far fronte a tutti gli esami e
fare un lavoro di tesi degno di questo nome. Infine, penalizza le piccole università
e i loro studenti, perché se i docenti sono pochi non ci sono le energie per
mettere in piedi un'offerta adeguata di corsi specialistici; così si ripiega su
corsi generici, che di specialistico hanno solo il nome, mentre gli studenti
che possono permetterselo vanno a fare la specialistica da un'altra parte, e di
fatto si sta creando un sistema di università di serie A e B, che non ha nulla
a che fare con la qualità dei singoli docenti, ma con le dimensioni, e col
reclutamento sociale degli studenti».
Uno scrittore può “innamorarsi” di uno dei suoi
personaggi e portarlo con sé ben oltre il tempo tecnico della scrittura del
libro?
«No.
Finito il libro, è come
essere guariti da una malattia.
Il libro e i suoi
personaggi se ne vanno per il mondo da soli.
Per uno scrittore
esistono solo il libro a cui sta lavorando e quelli a cui lavorerà in futuro».
In chiusura ci racconti in breve la Sua ultima
fatica letteraria, Gli Occhi di Venezia(ed Mondadori, 2011), e, se Le va, ci anticipi i suoi progetti futuri nel campo
della narrativa.
«E' stata un'intervista
lunghissima!
Non vi racconterò Gli occhi di Venezia, e quanto ai
progetti futuri, non se ne parla mai!».
B. Saccagno
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