Fondatore Promotore della
Fondazione Fitzcarraldo
Responsabile della
Ricerca e Consulenza della Fondazione Fitzcarraldo
Ideatore e responsabile
editoriale di Fizz
Docente al Politecnico di
Torino
“Fizz oltreil marketing culturale”: vuol raccontarci l’essenza di Fizz e il suo andare
“oltre”?
«Fizz, nasce nel 1999 da una scommessa del sottoscritto
e di Elisa Giaccardi.
La scommessa consisteva
nel puntare su Internet (molto prima dell’arrivo del cosiddetto Web 2.0) per
progettare uno spazio “franco” in cui dare voce a punti di vista molto diversi
e spesso contrastanti attorno al tema del marketing
culturale.
In quella fase il marketing era ancora percepito come un
concetto ambiguo, da maneggiare con le dovute cautele e che evocava, agli occhi di molti operatori
del settore, spettri e scenari inquietanti: disneyficazione
o macdonaldizzazione della
cultura, omologazione, appiattimento dell’offerta sui gusti del mainstream dominante, ricerca esclusiva
del profitto e perseguimento di un modello sostanzialmente economicistico della
cultura.
L’idea originaria era,
dunque, quella di sensibilizzare e avvicinare il sistema culturale al marketing, cercando di trovare un
lessico comune, presentando modelli, esempi, soluzioni gestionali innovative,
pertinenti, efficaci e rispettose del modo di gestire e produrre arte e
cultura.
A distanza di più di
dieci anni, molta strada è stata fatta, molte piccole battaglie di natura
culturale sembrano vinte e il marketing
non è più considerato una parola tabù.
Rimane comunque molto
lavoro da fare per avvicinare pubblico nuovo alle proposte artistiche e
culturali, per innovare nei modelli di gestione, di offerta e nelle logiche di
comunicazione; occorre, appunto, andare “oltre”
per costruire “avventure” e “territori” privilegiati per sperimentare
forme nuove di relazione, di esperienza e
di partecipazione».
Lei ha una lunga esperienza di studio, ricerca,
consulenza e docenza nel campo del marketing culturale e conosce a
fondo il mondo della cultura.
Un campo eterogeneo e pieno di contaminazioni, vivace
e dinamico; nonostante la crisi si moltiplicano, su tutto il territorio
nazionale, eventi e progetti rivolti a nicchie di pubblico differenti.
Secondo la sua visione “dall’interno” qual è la
situazione attuale del settore “cultura” in Italia, quali sono i suoi punti di
forza e di debolezza?
«È difficile dare una
risposta di sintesi perché il settore cultura comprende realtà profondamente
eterogenee ed è popolato da esperienze, organizzazioni, amministrazioni e
persone fortemente innovative dal punto di vista del marketing culturale che, però, spesso si perdono e non riescono a
fare “massa critica” in un contesto più generale caratterizzato da una visione
spesso statica e “posizionale” del nostro patrimonio culturale.
La nostra fantastica (e
spesso ingombrante) eredità storica e artistica rischia, paradossalmente, di
impegnare tutte le risorse e le progettualità nella tutela e nella
conservazione dell’esistente; l’occupazione costante e prevalente a “gestire”
il passato sembra fiaccare le capacità di vivere un presente e progettare un
futuro che siano all’altezza dei periodi che hanno fatto e, tutto sommato,
continuano a fare la nostra fortuna.
Le debolezza del settore
risiede nella sua difficoltà a farsi riconoscere come ambito realmente
strategico per lo sviluppo del paese.
A una retorica piuttosto
diffusa della centralità della cultura quale elemento identitario e
caratterizzante il nation branding non corrisponde, infatti, un’altrettanto
convinta presa di posizione delle politiche a livello centrale e territoriale
nello stimolare l’innovazione creativa, la produzione culturale, l’allargamento della base sociale e l’integrazione tra
cultura e turismo nelle strategie di sviluppo territoriale».
Il pubblico è una variabile di primaria
importanza, è il consumatore dell’evento o del luogo, colui che fruisce, vive e
giudica l’esperienza: in negativo, con un riscontro in passivo per l’ente
organizzatore, o in positivo, instaurando un rapporto di continuità e generando
pubblicità gratuita attraverso il passaparola.
Sulla base dei dati oggettivi, quali sono gli identikit dei tipi di pubblico “consumatori
di cultura nel contemporaneo”: chi sono, cosa vogliono, cosa cercano e cosa si
aspettano dalle esperienze culturali che vivono?
«I consumi e le pratiche
culturali - che rientrano sempre di più tra i comportamenti di differenziazione
degli stili di vita e di costruzione di nuove identità collettive - stanno
evolvendosi in modo spesso tumultuoso, anche se non appare così semplice trarre
una lettura univoca dei risultati e delle implicazioni a medio termine.
Da un lato è indubbio il
crescente appeal di arte e cultura nel mobilitare i cosiddetti “pubblici
elitari di massa”, rilevati ed enfatizzati a livello mediatico e statistico
quando si citano i dati sulla crescita del turismo culturale, su musei e
monumenti presi d’assalto nei weekend
festivi, sul pubblico di giovani e adulti che frequentano i festival estivi e
le grandi mostre di richiamo.
Dall’altro, non si può
tacere di come fasce tutt’altro che marginali della popolazione si trovino
ancora oggi in una situazione di estraneità perché non coinvolte dalle proposte
culturali più consolidate o perché esprimenti domande e istanze non
direttamente e automaticamente riferibili all’offerta presente: si pensi agli
stranieri residenti, agli anziani, ai giovanissimi, ai ceti meno abbienti e a
tutte quelle persone che soffrono una condizione di “cultural divide”.
Complessivamente possiamo,
comunque, parlare di un pubblico più esigente, esposto ad una pluralità di
mezzi di informazioni (digitali e non), attento al servizio, alla qualità e
alla piacevolezza del contesto e alla ricerca di esperienze stimolanti e
arricchenti .
Le persone accedono più
facilmente ai contenuti culturali (che, ad esempio, facilmente trovano su
Internet), e sono sempre più abituate a standard
di offerta ai quali sono sempre meno disposti a rinunciare: accoglienza e
orientamento, servizi e attività per famiglie, tecnologie e apparati comunicativi
per la mediazione e l’approfondimento dei contenuti».
La cultura crea economia con ricadute su vasto
raggio, ben oltre il contesto socio-territoriale di riferimento, su un
orizzonte temporale non ascrivibile in esclusiva al breve periodo, sebbene non
sia semplice contabilizzare con chiarezza ed uniformità il ritorno degli
investimenti.
Senza una definizione chiara del procedimento di
calcolo condiviso e preciso è difficile ragionare su dati omogenei per lo
sviluppo del settore e per la definizione di interventi legislativi e
governativi veramente efficaci.
Quali sono le possibili soluzioni per dare una
risposta chiara alla “misura contabile” dell’impatto economico reale che la
cultura genera sul PIL nazionale?
«Il tema del valore economico della cultura e delle possibilità di
misurarlo sta diventando sempre più urgente e attuale nel contesto italiano.
In realtà si tratta di un tema già dibattito a partire dagli anni ’80,
soprattutto in Gran Bretagna, e si deve a Myerscough con “The Economic Importance of the Arts” (1988) il primo significativo
studio che dimostrava che l’industria culturale era un settore rilevante per lo
sviluppo e l’occupazione del paese.
Attualmente esistono diverse metodologie che consentono di misurare e di
tradurre in termini monetari l’impatto economico generato dalle attività e
dalle istituzioni culturali: l’analisi di impatto economico, i diversi approcci
della valutazione contingente e il sistema del Social Return on investment (SROI).
Ciascun metodo presenta vantaggi e limiti a seconda degli obiettivi dello
studio e dell’ambito di applicazione. Rimangono comunque questioni di fondo
ancora non del tutto irrisolte, quali il carattere eccessivamente
deterministico e lineare (soprattutto dove occorre quantificare benefici di medio
termine), la mancanza di modelli di computo condivisi, in particolare per la
moltiplicazione degli effetti indiretti e indotti prodotti da un determinato
investimento in cultura e una certa disinvoltura nel misurare gli effetti
“lordi”, anziché quelli “netti”, ovvero quelli che realmente producono un
accrescimento addizionale di nuova economia e di occupazione che rimane sul
territorio di riferimento.
Esistono comunque studi di ampio respiro (quelli condotti ad esempio da KEA
a livello europeo) che hanno consentito di quantificare il peso del comparto
culturale e creativo e di verificarne i tassi di crescita (che sono più elevati
di quelli di altri settori produttivi spesso maggiormente al centro delle politiche
di sostegno e di sviluppo)».
Oggi il Web e i suoi strumenti sono elementi
imprescindibili per la comunicazione, sebbene sia necessario conoscerne i
linguaggi e saperli utilizzare correttamente, e non sempre accade, come
dimostrano i recenti insuccessi
incassati da alcuni noti brand sui social
network.
In Italia quanto, come e con che risultati gli
enti culturali utilizzano internet e i suoi canali per promuoversi e per
avvicinarsi in modo semplice e diretto al pubblico?
«Internet e il Web si
stanno rivelando strumenti sempre più imprescindibili per comunicare,
promuovere e rafforzare il senso di comunità attorno ad un progetto e a
un’istituzione culturale.
Si tratta di una discontinuità così radicale e
irreversibile che nell’arco di pochi anni il modo di comunicare e fare marketing delle organizzazioni culturali
sarà totalmente rivoluzionato.
Sarà pleonastico separare la conversazione online dalla conversazione off line: ne esisterà una sola che si
muoverà tra a cavallo tra le molteplici dimensioni del comunicare.
Molti musei, teatri e
organizzazioni culturali in Italia si stanno attrezzando per la nuova sfida
digitale, anche se non è sufficiente aprire un account su Facebook o su Twitter per generare nuovi modelli di
relazione e di conversazione 2.0.
L’apporto della tecnologia risulta vincente se
si innesta su un terreno fertile e predisposto al cambiamento, che richiede
però competenze, sensibilità e capacità di progettazione non sempre presenti
all’interno delle organizzazioni.
I nuovi modelli
comunicativi digitali toccano, dunque, un “nervo scoperto” non solo perché
richiedono competenze specifiche, ma perché obbligano ad una gestione e
manutenzione delle relazioni che richiede tempo, capacità di reazione,
predisposizione al confronto e al dialogo, condivisione delle informazioni tra
le varie componenti interne, rendendo ancora più urgente il problema del
sottodimensionamento e dell’adeguatezza delle competenze e delle funzioni di
comunicazione e di marketing
all’interno degli organigrammi di base».
In un suo articolo, Surfing and walking. I musei e le sfide del2.0” (Settembre 2010, Fizz)
fa un’analisi
dell’evoluzione digitale che ha trasformato i visitatori, in modo talmente
radicale da chiedersi se la definizione classica di “visitatore” abbia ancora
senso d’esistere.
Quali sono le strategie di
marketing culturale per rispondere alle nuove esigenze dei visitatori
digitalizzati?
«I social network (Facebook è popolarissimo, seguito a distanza da
Twitter e in futuro anche da Foursquare) e le piattaforme di aggregazione di
contenuti (Youtube, ma anche Flick), se non vengono utilizzati semplicemente
come ulteriori “vetrine digitali” per finalità promo-informative, possono
diventare spazi di azione sociale utilissimi per parlare a pubblici nuovi, per
ascoltare i fruitori reali e potenziali, per dialogare in modo informale e
spontaneo, per coinvolgere le comunità di appassionati e per co-generare
contenuti e proposte.
La capacità di ascolto,
la partecipazione e il coinvolgimento saranno le parole chiave del nuovo
vocabolario del social media marketing».
La crisi attuale non ha risparmiato nemmeno la
cultura, un settore soggetto a pesanti tagli negli investimenti pubblici e mancante
di interventi governativi efficaci a sostegno della crescita.
L’Italia è piena di musei, di tutte le dimensioni
e tipologie, che si impegnano a conservare, educare e migliorare la conoscenza
della nostra identità, fra infinite difficoltà.
Secondo la sua visione quale definizione e valore
potranno avere i musei nell’era post crisi?
«Nicolas Serota dice che
“Il Museo del XXI secolo dovrebbe essere
basato sugli incontri con ciò che ci è poco familiare, sullo scambio e sul
dibattito, piuttosto che su un’idea della musa perfetta”.
Mi sembra che questa
definizione colga una delle sfide principali del museo prossimo venturo e che
chiama in causa principalmente quei musei che vorranno dotarsi di un approccio
partecipativo, sperimentale, e aperto.
Un approccio orientato a
un coinvolgimento attivo e intelligente della comunità e dei visitatori per
rendere il museo un luogo maggiormente dinamico, stimolante, interattivo,
rilevante e aperto ad un gruppo di persone che sia il più ampio e differenziato
possibile».
B. Saccagno
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