Biologa
Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale IKE dell'Università di Linkoping Svezia
In Italia la ricerca è considerata un fanalino di
coda dell’economia del paese, in realtà è il motore propulsore di una nazione e
della sua cultura.
La crisi sta mettendo a dura prova i nostri atenei
e il loro ruolo: quello di tramandare, trasmettere e di creare conoscenza,
attraverso la ricerca e l’innovazione in tutti i campi.
La riforma introdotta dal DDLGelmini (approvato il 30/11/2010), invece di migliorare le cose, come si
proponeva in origine, ha accresciuto il precariato e reso più difficile “fare
ricerca”, che ribadisco è essenzialmente un atto economico (i brevetti e le
innovazioni si vendono sul mercato, forse, chi di dovere non se lo ricorda…).
Tu sei una ricercatrice, vuoi darci la tua
opinione critica in merito al DDL in questione, chiarendoci quali sono i punti
in negativo, da eliminare o correggere, e quali in positivo, che andrebbero
salvati e potenziati per dare davvero impulso alla ricerca universitaria in
Italia?
«Nella riforma Gelmini
c’è il tentativo di fare dell´Italia una nazione più vicina all’Europa.
L’idea dei ricercatori a
tempo determinato esiste già da tempo, negli Stati Uniti per esempio l’unica
posizione a tempo indeterminato è quella del FullProfessor, l’equivalente del nostro Professore Ordinario.
C’è, però, da
dire che il posto a tempo determinato è garantito: dalla dinamicità della
ricerca; dal fatto che le università, così come gli istituti di ricerca,
investono in questo settore e riescono a reperire fondi da usare per offrire servizi
e mantenere posizioni quali quelle dei Ricercatori, Professori Associati o
Ordinari; creano un ambiente stimolante dal punto di vista delle facilities (apparecchiature, computer, collaborazioni).
Il DDL Gelmini ha portato
ad esaurimento i posti di ricercatore a tempo indeterminato, sostituendoli con
quelli di ricercatore a tempo determinato, i cui contratti possono essere
rinnovati per una sola volta oppure affatto a seconda dell’inquadramento.
In Italia, la posizione a
tempo determinato prevede, quindi, che allo scadere del contratto si debba
essere chiamati da un’ università a ricoprire il ruolo di Professore Associato,
ma se la chiamata non arriva la carriera come ricercatore si blocca, perché la
possibilità che il contratto, anche solo come ricercatore a tempo determinato,
sia rinnovato non é contemplata nel decreto legge.
Questo aspetto del DDL è aberrante, ed è assolutamente lontano dalla nostra realtà universitaria.
Le
università, infatti, non possono sostenere la chiamata per il ruolo di professore
per tutti i ricercatori e, quindi,
perché ci deve essere preclusa la possibilità di continuare a fare ricerca nel ruolo
di ricercatore anche se a tempo determinato?
Il tentativo di rinnovare l’assetto dei ruoli
universitari è giusto, ma il messaggio che a mio giudizio viene recepito è che è meglio intraprendere un altro tipo di carriera, svalutando sempre di più
l’idea stessa di fare ricerca».
In Italia tutti parlano di “meritocrazia” ma è una
“Morgana nel deserto”, purtroppo, rara come le “mosche bianche” e questo è un
fattore limitante, che pesa come un macigno sulla considerazione del nostro
sistema scolastico (e non solo) all’estero.
Dare valore esclusivo alla meritocrazia, alle
capacità, alla professionalità e alle buone idee sarebbe veramente un passo
avanti per dare impulso al “saper fare”, alla cultura in tutte le sue
declinazioni (economia compresa).
Qual è il tuo pensiero in merito?
«L’Italia è un paese complesso che ha intrinseche molte situazioni
consolidate che, ora, sono difficili da scardinare.
Una di queste è sicuramente la discendenza baronale in termini
universitari, che, se prima si tramandava di padre in figlio, ora si tramanda
da professore universitario in studente/ricercatore che rimane devoto dopo anni
e anni di gavetta.
La meritocrazia non ci appartiene ed è un fatto culturale, purtroppo.
Quando si tratta di scegliere ha maggior peso la persona devota rispetto
alla persona con buone idee, perché così la competizione è azzerata, il
professore, o capo che esso sia, rimane l’unico indiscusso protagonista della
scena.
Questa situazione di staticità si riversa nella ricerca ma anche nella
carriera, in entrambe é difficile emergere, questa è anche la ragione per cui
molti ricercatori lasciano l’Italia.
Come si può trovare soddisfazione personale in un lavoro che é già duro di
per sé e richiede sacrifici se non ci si sente liberi di esprimersi?
A mio avviso l’errore macroscopico dei governi
italiani (ossia di tutti quelli che si sono susseguiti dagli anni ’80 ad oggi)
è l’aver distrutto, o quasi, il nostro sistema economico “misto”
(una commistione fra pubblico e privato,
organizzato in distretti
con realtà produttive medio/piccole) spingendoci verso un “capitalismo” estremo
che non è adatto né alla nostra mentalità, né alla nostra economia.
Le imprese pubbliche, scuole (di tutti i livelli e
gradi) comprese, sono state trasformate in aziende che devono tendere al
profitto, riducendo, di fatto: offerta, sussidi, qualità e ruolo sociale, che
sono i principi fondamentali del bene pubblico.
Così, le università, per sopravvivere, sono state
costrette ad utilizzare strategie di marketing
inadeguate che hanno moltiplicato offerte poco credibili e scarsamente aderenti
al mercato, ridotto i servizi agli studenti e le borse di studio e, ovviamente,
tagliato i fondi alla ricerca.
Manca, prima di tutto, una logica ponderata fra la
necessità di ridurre gli sprechi e amministrare in modo ottimale le risorse e
la necessità di mantenere forte e chiaro il ruolo sociale delle università, sviluppando una pianificazione puntuale e
razionale degli investimenti, di capitale ed umani.
Quali sono, secondo la tua esperienza diretta, le
vie possibili da seguire per cambiare la situazione contingente, pianificando
gli investimenti verso la crescita?
«Le Università sono state chiamate a cambiare il loro modus operandi: si sono trasformate in aziende e come tali
hanno cominciato a competere sull’offerta formativa e sui servizi da offrire,
si sono moltiplicati i corsi di studio perché questo poteva essere una
“attrazione”, ma nello stesso tempo si è cominciato a vivere un periodo buio di
svalutazione dell’Università, del suo ruolo di “fonte di sapere”.
Ora si sta lentamente tornando ad una situazione di normalità, questo
segnale arriva innanzitutto dall’accorpamento dei Dipartimenti e dalla nuova
riduzione dei corsi di laurea dopo l’espansione degli anni passati.
Questa linea di ridimensionamento serve principalmente a ridurre gli
sprechi, a far sì che si riescano a tenere più sotto controllo le
amministrazioni e soprattutto i soldi gestiti da queste.
Il mio parere è, comunque, che non é tanto importante che le Università
offrano tutti i corsi di Laurea, quanto che ci siano dei corsi di laurea dove
le Università riescano ad eccellere.
Se guardiamo all’Europa e agli Stati Uniti, le Università sono così
strutturate e offrono “servizi” mirati. Questo perché è più facile gestire
pochi corsi riuscendo a renderli eccellenti.
So che sarebbe una rivoluzione in termini soprattutto mentali, non siamo
abituati a pensarla così, ma credo che sarebbe l’unico modo per ridare alle
Università il ruolo esclusivo di fonti di conoscenza e sapere.
Inoltre, le Università devono
chiedere di più ai loro dipendenti, i ricercatori devono pubblicare e questo
deve essere un “must” nell’ambito
universitario; pubblicare vuol dire costruirsi un curriculum vitae che permette di sottomettere progetti e se il
progetto viene approvato l’Università incassa dei soldi che può investire nelle
facilities,
nelle conferenze, oltre che ricevere dei benefici in termini di prestigio.
Quindi, io dico che bisogna focalizzarsi e pretendere che il Sapere sia il
fine ultimo dell’offerta formativa, per ottenere questo bisogna che le amministrazioni
pretendano che ogni singola persona sia funzionale a far sì che l’Università
acquisti una linea educativa specifica e tenda sempre più verso l’eccellenza.
L’altra necessaria rivoluzione, nella quale dovrebbero seriamente investire
le Università è l’inglese, non è possibile che gli studenti di nuova generazione non parlino inglese, né che i
professori non siano all’altezza di sostenere lezioni e discussioni in inglese.
Io credo fortemente che questo precluda molte vie e dovrebbe, invece,
essere imposto. L’inglese è la lingua usata ad ogni livello in campo
internazionale: ai congressi, negli
scambi culturali, per sottomettere progetti.
Molte persone non si sentono
all’altezza anche perché manca loro una buona preparazione nella lingua inglese,
questo è uno svantaggio per la persona di per sé, ma anche per le Università che
non formano persone competitive che si sentono pronte ad interfacciarsi con la
realtà estera.
Io credo sia una forte perdita, perché le Università dovrebbero sempre di
più provare a creare un circuito di scambi culturali, dovrebbero pensare più in
termini “espansionistici”.
Se l’investimento economico e sociale da parte delle Università è mirato
allora possiamo essere certi che un risultato si ottiene, sia in termini
formativi per gli studenti che in termini di prestigio per le Università, io
credo fortemente questo sia un punto fondamentale».
Per i ricercatori le esperienze professionali
all’estero sono un atto dovuto e doveroso per ampliare orizzonti e vedute, per
arricchire e migliorare la propria professionalità; in Italia è soprattutto
“una fuga di cervelli”, costretti ad andarsene per poter lavorare nel proprio
campo, spesso senza ritorno “a casa”, una perdita immensa a livello economico.
Anche tu presto ti trasferirai a lavorare
all’estero, perché hai fatto questa scelta e cosa speri per il tuo futuro
prossimo?
«Il tempo che sto dedicando a
questa intervista arriva quando mi sono già trasferita a lavorare in Svezia.
La mia scelta è stata fondamentalmente dovuta al
forte desiderio di fare carriera, ma questo non deve essere visto in termini
negativi, ma solo nel giusto senso di voler cambiare il proprio ruolo nel
momento in cui si acquisisce esperienza e professionalità.
L’Italia questo non lo permette.
Se fossi rimasta avrei continuato a lavorare in
un laboratorio di ricerca con il mio ruolo che non può e non deve essere lo
stesso di cinque anni fa, quando per la prima volta ho ottenuto la posizione di
post-doc.
Non è facile per me pensare di rientrare in
Italia e se mi capiterà una buona occasione per proseguire nella ricerca con
una posizione consona alla mia professionalità eviterò sicuramente di farlo».
Cosa
significa fare ricerca, in termini economici, e quali sono le differenze nel
presentare, e sviluppare, un progetto di ricerca in Italia e all'estero?
«Reperire
fondi è diventato un problema ovunque, non ci sono paesi europei o extra-europei che non abbiano dovuto
fare i conti con questa inversione di tendenza.
Ci sono poi sicuramente settori della ricerca dove è più facile ottenere finanziamenti e settori più di nicchia, dove, invece,
reperire fondi è impresa ardua.
Al di là dell’applicabilità o meno della ricerca,
fare ricerca è comunque qualcosa che deve essere salvaguardato, perché è alla
base dell’innovazione e della scoperta.
Si possono raccontare infinite scoperte avvenute
per caso, ma in realtà niente avviene mai per caso, perché dietro c’è sempre qualcuno
che ama “ricercare”.
L’economia di un paese ruota anche attorno a questo
desiderio di conoscere e scoprire, invece in Italia la ricerca è vista come
qualcosa nella quale non vale la pena investire.
Credo che la maggior pecca dell’Italia sia quella
di pensare che la ricerca debba dare dei risultati immediati, questo non è possibile, la ricerca richiede tempo e, quindi, anche denaro e investimenti:
questo credo sia il concetto che bisognerebbe scardinare.
Inoltre, l’Italia è uno dei pochi paesi al mondo
che non attrae ricercatori dall’estero, non siamo in grado di sostenere la
ricerca per i ricercatori italiani, come possiamo indurre qualcuno a venire a
lavorare in Italia?
Questa incapacità del nostro paese è una grave perdita,
perché attrarre ricercatori fa sì che si possano creare network internazionali che darebbero impulso alla ricerca in
generale.
Ottenere finanziamenti oggi significa anche avere
collaborazioni estere, perché bisogna avere le idee e saperle sviluppare in
maniera interdisciplinare e questo, molto spesso, richiede la collaborazione
tra più gruppi di ricerca.
Se l’Italia rimane chiusa in sé stessa non sarà mai
possibile impedire ai ricercatori italiani di spostarsi all’estero portandosi
dietro anche le proprie idee».
Sia tu che
tuo marito siete ricercatori, in campi diversi, giovani e avete una famiglia,
una scelta molto coraggiosa in tempi di crisi, dove mancano certezze e si sta
assottigliando la capacità di credere e sognare nel futuro.
Cosa vuol dire essere una giovane famiglia di
ricercatori, oggi, in Italia?
«In Italia si fa fatica.
Sia io che mio marito siamo rimasti “scoperti”, ovvero senza stipendio, per
diversi mesi.
Io ho dovuto affrontare la seconda maternità in un momento di totale
assenza di stipendio, forse io e mio marito siamo due sognatori, forse c’è
anche da dire che abbiamo una grande forza di volontà, ma le nostre energie
sono state messe a dura prova.
Arrivati alla soglia dei 40 anni non è facile continuare a guardarsi allo
specchio e vedere che non ci sono stati progressi in campo lavorativo.
Abbiamo deciso di costruirci una famiglia a prescindere dalla situazione
lavorativa precaria, però ad un certo punto abbiamo anche detto che forse
meritavamo di trovare un’alternativa migliore che ci permettesse di vivere una
vita migliore».
Infine, cosa ti auguri per il futuro prossimo, per
te e per i tuoi figli?
«Purtroppo la scelta di
trasferirmi all’estero è stata una scelta che ho fatto anche per i miei figli,
per dare loro la chance di potersi sentire un giorno soddisfatti del
loro percorso lavorativo.
Mi auguro di poter dire lo stesso».
B. Saccagno
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