A tutti Voi
mercoledì 17 dicembre 2014
lunedì 1 dicembre 2014
Intervista a Marco Pichetto
Sindaco, ideatore e coordinatore di Veglio CoWorking Project
Gentile Sindaco,
prima di raccontarci il vostro interessante progetto, vorrei chiederle di darci
una sintetica definizione di co-working.
«Ci sono molte definizioni di co-working, quella che più mi
piace è quella che vuole che lo spazio che si condivide per motivi di lavoro
sia anche uno spazio condiviso per idee, collaborazioni e, perché no,
condivisione di una modalità di vita lavorativa e non solo, alternativa ai
classici standard».
Veglio
Coworking Project è un progetto molto interessante che ha ricevuto il primo
premio al concorso nazionale indetto dalla Convenzione
Alpi, nella sezione Progetti per i
giovani.
Com’è nato e come funziona?
«Il progetto è nato abbastanza “per caso” nel momento in cui
sono venuto a conoscenza del bando indetto dalla Convenzioni delle Alpi nell’
agosto 2011 ed è stata la naturale conseguenza di alcuni
elementi/situazioni/esigenze che c’erano
a Veglio, ovvero avere degli spazi vuoti di proprietà comunale e non sapere
come utilizzarli, il sentire di dover fare qualcosa per i giovani sia dal punto
di vista di aiuti per avviamento al mondo del lavoro sia per il fatto di
cercare di contrastare lo spopolamento dei giovani stessi verso altri luoghi e
da una esperienza personale di condivisione di spazi lavorativi tra liberi professionisti
che avevo avuto negli anni precedenti.
Dal mix di queste diverse cose è nato il
progetto su carta, l’ abbiamo candidato al premio e nel novembre 2011 abbiamo
ricevuto la comunicazione ufficiale della vittoria al concorso, da lì, dopo
poco più di 1 anno di lavoro tra progettazione definitiva, lavori di
sistemazione dei locali, promozione, realizzazione del sito web ed arredamento
dei locali, nell’aprile 2013 abbiamo inaugurato gli spazi del Veglio CoWorking
Project alla presenza di 3 coworkers che da subito hanno aderito all’iniziativa.
In breve si tratta di condividere degli spazi lavorativi attrezzati
con postazioni da lavoro e cablati con linea internet a banda larga e con sala
riunioni ed alcune attrezzature comuni, il tutto gratuitamente per quanto
riguarda l’ affitto dei locali e con il solo onere di suddividersi le spese
vive delle utenze, tranne la linea web che è garantita gratis dal Comune e dal
partner MegaWeb di Biella.
Attualmente ci sono 6 postazioni attrezzate e 5 sono
utilizzate».
In Italia, soprattutto nei piccoli centri,
è ancora grande il digital divide; di
fatto lo Stato non ha, a tutt’oggi, preso una direzione chiara ed efficiente
per il sostegno e per lo sviluppo delle tecnologie digitali su tutto il territorio
nazionale, che, purtroppo, ha molti gap
da colmare e situazioni disomogenee.
Voi avete dovuto fare i conti con il
divario digitale?
E se sì, come siete riusciti a superare
l’ostacolo?
«Il divario digitale per i piccoli comuni di montagna è
molto accentuato, a Veglio ad esempio non arriva la fibra ottica ed i cavi
telefonici di Telecom non forniscono banda larga, che però fortunatamente,
anche se non copre il 100 % del territorio, ci sono altri operatori che mandano il segnale Wi-Fi
tramite antenne e che, come nel caso di
MegaWeb che è società a prevalente capitale pubblico e gestita da Città Studidi Biella, nonché nostro partner del progetto, garantiscono banda larga Wi-Fi
di buona qualità.
Il Veglio Co Working Project tra l’ altro è stato inserito
nei mesi scorsi tra le “buone pratiche” nei documenti di programmazione europea
dell’ Agenda Digitale Alpina».
Nel nostro paese è, purtroppo, difficile
puntare su progetti innovativi, perché spesso si deve fare i conti con una
quasi atavica propensione a prendere le distanze dal nuovo, da quello che può
cambiare i parametri e i percorsi canonici verso qualcosa di innovativo o,
semplicemente, differente.
Come è stato accolto il vostro progetto
dagli abitanti di Veglio e dai potenziali fruitori?
«Il solo fatto che il progetto avesse un nome “non italiano”
, in prima battuta non è stato molto compreso, poi, quando lo si è spiegato
bene e soprattutto hanno visto i risultati ottenuti, gli abitanti di Veglio ma
anche i fruitori, lo hanno accolto molto positivamente, proprio perché è visto
come qualcosa che funziona, che si può vedere e toccare e non come un semplice
progetto su carta che, come spesso invece accade, rimane un bel libro dei sogni
oppure una bella dichiarazione di intenti!».
In tempi di crisi
puntare sulla tecnologia e sulla filosofia del downshifting
- parola ostica con un profondo significato: nel lavoro mettere al primo posto
la gratificazione personale invece del profitto - soprattutto nei piccoli
centri, che si stanno depauperando per la mancanza di possibilità e per le
distanze dalle grandi direttrici, può davvero rivelarsi una carta vincente per
cambiare lo stato delle cose in un’ottica più sostenibile e migliore per tutti?
«Sicuramente sì, di downshifting a Veglio se ne è parlato
diverse volte ed ho provato in passato a spingere questa filosofia per cercare
di spingere qualcuno a scappare dalle città e rifugiarsi a Veglio per vivere
meglio e nel contempo per continuare a lavorare, un paio di casi ci sono stati,
ma a volte l’ ostacolo più grande è certamente quello legato alle nuove
tecnologie ed alla scomodità di essere lontani dalle grandi arterie
autostradali e da ferrovie efficienti».
Negli ultimi anni è sempre più arduo
stare al timone dei piccoli comuni, in difficoltà e stretti nella morsa di
direttive centrali che, a volte, non facilitano le politiche territoriali, proprio
quando, invece, sarebbe importante dare ossigeno alle piccole aree per
mantenerle in vita e farle rifiorire.
In un contesto contemporaneo
complesso e complicato quanto coraggio ci vuole a dare vita ad un progetto innovativo
che di fatto è una vera e propria scommessa?
«Il coraggio è più o meno lo stesso che devi avere per
continuare a vivere in questi luoghi di montagna, dove le stagioni fredde
sembrano non finire mai e quelle calde sembrano invece essere troppo brevi e
dove il primo supermercato è a minimo 10 km!
La pace, i colori delle stagioni,
il suono delle campane delle mucche ed il vicino che vuole fare il baratto tra
“pomodori e fagiolini” o che ti porta le uova fresche in cambio di un po' di
zucchine, sono invece i lati positivi che ti aumentano il coraggio e ti fanno
scommettere anche su progetti molto innovativi e basati sulle nuove tecnologie
in luoghi dove tutte queste sembrano non c’entrare nulla, ma è proprio mixando
bene tutti questi aspetti, nuovi e vecchi, che possiamo continuare a vivere in
un paese come Veglio».
Quali sono i punti di
forza e le opportunità del coworking
a Veglio?
«Sicuramente il bassissimo costo per gli utilizzatori è un
grande vantaggio, così come il fatto di avere la libertà di utilizzare lo
spazio assegnato in assoluta libertà, senza vincoli di orari di apertura e
chiusura, ognuno ha le chiavi e và quando vuole; altro punto di forza è la
sinergia che si può creare, essendo uno spazio piccolo, tra i vari coworkers e
di conseguenza possono anche nascere buone collaborazioni.
È quindi una buona
opportunità per chi vuole avviare una nuova attività lavorativa, soprattutto se
è alla prima esperienza».
E quali, se ci sono,
i punti deboli da migliorare?
«La mancanza di quello che in molti spazi di coworking viene
definito il “coworking manager” o
coordinatore, che potrebbe servire nel caso si volessero avviare dei progetti
comuni tra i coworkers, magari rivolti alla collettività, o di sviluppo locale.
La posizione nella quale si trova Veglio, non favorisce l’ utilizzo degli spazi
per persone che provengano da fuori zona, oltre cioè un raggio di circa 10/12
km da Veglio».
Infine, quali sono
gli obiettivi di Veglio Coworking nel medio e lungo periodo?
«Uno degli obiettivi è quello di mantenere per quanto più
possibile tutte le postazioni disponibili sempre occupate, pertanto occorre
sempre fare un po’ di promozione al progetto stesso, l’ altro obiettivo è
quello di cercare di recuperare dei fondi per poter avviare dei progetti per lo
sviluppo del territorio, magari anche solo di promozione turistica e/o in
merito a progetti di promozione della residenzialità, nei quali possano lavorare
insieme i coworkers, il tutto per fare in modo che a Veglio si possa vivere e
lavorare sempre meglio».
Barbara Saccagno
lunedì 17 novembre 2014
To be or not to be “a prion”: this is the question!
Il termine
“prione” (acronimo di Proteinaceus Infective Only particle) venne coniato nel 1982 da Stanley Prusiner, quando lo
usò per identificare l’agente infettivo responsabile della malattia di pecore e
bovini, la scrapie. Prusiner aveva notato che l’agente infettivo in questione era
di natura proteica, non conteneva acidi nucleici ed era resistente all’inattivazione
con trattamenti che sono soliti degradare gli acidi nucleici stessi.
La caratteristica principale del prione è l’alta infettività e la
capacità di propagarsi mantenendo una specifica conformazione tridimensionale,
ovvero di replicarsi mantenendosi fedelmente uguale a sè stesso. Inoltre ai
prioni è associato il salto di specie come quello pecora-bovino (Encefalopatia
Spongiforme Bovina) o bovino-uomo (Morbo di Creutzfeldt-Jakob).
Dati recenti della letteratura scientifica stanno tentando di categorizzare
le proteine responsabili di malattie neurodegenerative, quali la malattia di
Alzheimer o il morbo di Parkinson, come proteine prioniche, ma riguardo questo
si è aperto un acceso dibattito: proteine quali Aβ o tau hanno
davvero tutte le caratteristiche dei prioni?
Tauopathies are a group of neurodegenerative diseases,
they are characterized by the formation of tau aggregates, which are insoluble
fibers that clog the cell up.
Alzheimer´s disease (AD) is one of the most
devious forms of tauopathy that affects 30 million people worldwide and will
affect more than 120 million by 2050.
Tau is a microtubule-associated protein
that binds and stabilizes the network of microtubules within the cells. Once it
is phosphorylated, tau becomes twisted and tangled and its ability to bind to
microtubules is reduced, thus leading the entire neuron transport networks up
to the collapse.
Prior studies show that in “test tube experiments” tau has the
ability to propagate by adopting specific conformations, which show unique
physical properties. In this recent paper, Marc Diamond and collaborators
examined the ability of tau strains to self-propagate by maintaining their
distinct conformation in living cells and organisms. The authors produced tau
fibrils in vitro and used them to seed pathological inclusions containing
fibrillar aggregates in the cells.
They isolated two cell clones that had a specific
“phenotypical” morphology and characterized them in depth.
They noticed that
once these clones were injected into naïve
cells, they were able to
stably propagate their own particular shape of inclusion from mother to
daughter cells. Then, they injected transgenic mice with these strains and waited
for the appearance of tauopathy. After three weeks, they collected the brains,
which underwent both biochemical and histological analysis.
The authors found
that these strains were stably inherited trough multiple generations,
maintaining their unique pathological phenotypes.
The conclusion of this study brought Diamond and his
collaborators to describe tau as a prion, since, according to them, the protein
accounts for all the characteristics of prion strains.
But what do you think?
Isn´t
this definition risked?
Prions are infectious agent, whereas there is no proof
that amyloid proteins are.
The infectivity of neurodegenerative proteins must
be demonstrated if we want the public audience to pick the idea of AD as a
“prion” disease, otherwise this concept could be misleading.
Anyway, there is big news in this study!
By demonstrating that tau acts by propagating a
specific strain conformation, Diamond and his collaborators try to relate the
behavior of this protein to the human disease.
In fact, it stands to reason
that different tauopathies come with their own “fingerprint” that, if we
consider the result of this study, may be highly specific for patients.
Since many drugs fail at the clinical trial stage, we
must consider the possibility that therapeutics is ineffective due to differences
in tau´s conformers among patients.
This means that probably the AD pattern is
much more complicated than we thought, and that there is still a long way to go
to find effective new treatments for AD, but studying the behavior of amyloid
proteins is the inevitable process to develop drugs that can turn out to be
successful.
Bibliography
Sanders DW, Kaufman SK, DeVos SL, Sharma AM, Mirbaha
H, Li A, Barker SJ, Foley AC, Thorpe JR2, Serpell LC, Miller TM, Grinberg LT,
Seeley WW, Diamond MI (2014) Distinct tau prion strains propagate in cells and
mice and define different tauopathies. Neuron 82: 1271-1288.
Livia Civitelli, PhD
Università di Linkoping Svezia - IKE
martedì 4 novembre 2014
Intervista a Gianluca Lalli
Cantautore, musicista, scrittore, leader e fondatore Ucroniutopia
Tu sei cantautore,
scrittore, fondatore e leader del
gruppo musicale Ucroniutopia, cosa significa oggi, nel nostro contemporaneo
fuggente, essere un artista?
Dacci la tua
personale definizione.
«Domanda difficile ma stuzzicante per un logorroico come me.
Iniziamo col dire che prima di essere un artista
bisognerebbe essere un uomo e questo è un percorso ancora più difficile in una
società come quella di oggi.
L'artista e l’uomo dovrebbero essere un tutt’uno, cosa che,
invece, da parecchio tempo è una rarità, trovo che questo sia un mondo dove il bipolarismo
trionfi senza grandi ostacoli
È frequente, ad esempio nell’ambito musicale, che un artista
canti una canzone contro il sistema attuale, cioè contro le banche o le
multinazionali (“i potenti della terra” per capirci), mentre nella realtà viva
in una condizione di benessere materiale invidiabile, conformato perfettamente
con la società che critica nei versi, spesso possedendo un conto in banca da
capogiro.
Da sempre le arti hanno rispecchiato la società del tempo: questa
è un civiltà decadente in tutto ed è anche per questo che l’arte oggi è
decadente e l'uomo come tale ancor di più».
La
Fabbrica di Uomini, il tuo ultimo disco, è un interessante trama di
racconti che si intrecciano nella voce del cantastorie, la tua, per narrare
storie che si fondono con la musica in un viaggio senza tempo, si potrebbe dire
che si tratti di un esperimento metaletterario teso a fondere la staticità
dello scritto con il movimento del ritmo musicale.
Com’è nato il disco e
quali sono i messaggi che racchiude?
«Il disco
prende il nome da un racconto, La
fabbrica di uomini, di Oskar
Panizza, uno scrittore italo americano, dove si immagina una società in cui
gli uomini vengono realizzati in un laboratorio.
Questo
racconto a mio modo di vedere somiglia molto ad esempio ad un altro romanzodistopico: Il mondo nuovo di Huxley, qui gli uomini
venivano creati in provetta.
Il filo conduttore del disco è sempre lo stesso, la disumanizzazione
provocata dal finto progresso che in realtà è un regresso a 360°: nell'arte, nel
cibo, nell'aria, soprattutto nella testa e nell'anima delle persone. Lo spirito degli uomini è morto, il grande
dilemma essere o avere si risolve oggi con una semplice formula tratta dalla
canzone Noi di Ucroniutopia “Dice un proverbio caro al potere, che l’essere
sta nell'avere”.
Oltre a
questo tema principale della spersonalizzazione ci sono anche altre storie.
Nel disco ci
sono 8 brani: il primo
è dedicato a Jules Bonnot,
l’anarchico francese che rubava ai ricchi per dare ai poveri, una sorta di Robin Hood in carne ed ossa; il secondo è
un valzer intitolato La Bomba,
liberamente tratto dalla canzone del grande artista francese Boris Vian (autore del
celeberrimo brano antimilitarista per
antonomasia, Le déserteur),
nella quale si racconta di uno zio che ha la passione di costruire bombe in
casa. La canzone è un mix di
provocazioni e ironia verso la classe politica che dalla notte dei tempi non ha
mai smesso di mangiare sul sangue altrui; poi Ora et Labora, il titolo svela l'ironia e la rabbia verso due
caste, quella clericale e quella statale, che si sono arricchite guidando il
popolo alla deriva con le loro finte massime del pregare e lavorare sodo, sì ma
per loro!; il quarto, Il canto dell''odio,
è liberamente tratto dalla poesia omonima di Olindo Guerrini,
grandissimo poeta italiano semi sconosciuto, dove si narra di un uomo
innamorato perdutamente di una donna che non lo degna neppure di uno sguardo,
quando lei muore lui si reca sulla sua tomba per dar sfogo alla sua carica di
veleno ed odio, con una poetica durissima che, in realtà, non è altro che il
suo cantare un amore infinito; L'Utopista
è una ballata che inneggia a seguire l'utopia, qualunque essa sia; il sesto è
una canzone speciale perché è stata scritta dal mio amico Claudio Lolli, cantautore
bolognese ben noto agli amici sognatori degli anni ‘70 grazie alle sue canzoni (come,
ad esempio, Borghesia, Ho visto anche degli zingari
felici, Michel e molte altre).
La canzone per il mio album tratta il tema della solitudine secondo la
“filosofia” lolliana: in questo mondo altamente tecnologico le persone, nei metrò o nei bus o per strada, non alzano più la testa perché sono persi dentro
ad aggeggi fatui (telefonini, tablet, etc) che ci illudono di non esser soli, anche se in realtà è il
contrario. Io, personalmente, penso che la solitudine sia una conquista ma, di
certo, non intendo questo tipo solitudine che oggigiorno pervade le nostre vite; Mezzolitro racconta la storia di un
ubriacone perso dietro alle sue canzoni ed al vino che dice, rivolto sempre al
solito interlocutore, “sono solo un
ubriacone, non sono un assassino”. Il testo è del mio amico cantautore
Aleandro Giori; il disco termina con un tributo a Rino Gaetano, una mia
versione della canzone Ma
il cielo è sempre più blu, ripresa da una registrazione del 2005, quando mi
aggiudicai il primo premio, proprio con questa cover, al concorso nazionale dedicato a questo grande autore
calabrese.
Insomma è il
tipico disco per l’estate!
Direi…acquistatelo».
Hai scelto per il tuo
disco la strada della produzione indipendente, perché?
«Per questa interessante domanda userò la risposta breve,
perché in Italia, secondo me, ci sono 3 modi per esser pubblicati e vendere:
utilizzare i soldi per arrivare; andare avanti grazie alle conoscenze, dire e
scrivere fesserie.
In realtà i politici scrivono dei testi bellissimi in questo
senso e anche alcuni religiosi non sono da meno, Platone parlava già qualche
tempo fa dell'anima dei doppiogiochisti, pensate da quanto tempo certi sistemi
funzionano in questo modo.
Comunque, per quanto mi riguarda, ho scelto questa via
proprio perché voglio essere fuori da questi circuiti, non voglio che si
accaparrino i miei diritti senza darmi nessuna garanzia, in sintesi io non
voglio essere preso in giro».
Quali sono i vantaggi
che ti offre, ovviamente secondo il tuo personale punto di vista?
«I vantaggi sono praticamente nulli dal punto di vista
promozionale ma molto gratificanti dal punto di vista umano e spirituale,
perché incontri la gente ai concerti e puoi guardarla in faccia, parlando e
ridendo insieme.
In questo modo fai una promozione di presenza, molto figo certo, poi, però, ti rimane il
dubbio se sia possibile vivere di umanità e spiritualità quando lo stomaco
brontola…».
Ne La Fabbrica di Uomini c’è una splendida
canzone, che parla di amori in sospeso e solitudini contemporanee, scritta e
musicata dal famoso cantautore italiano Claudio Lolli e da te interpretata,
raccontaci com’è nata la vostra collaborazione?
«Delle tematiche della canzone ho già parlato in precedenza,
per cui non mi ripeto.
Invece per quanto riguarda storie di vita vissute, ho
incontrato Claudio Lolli per la prima volta, intendo a livello professionale, 5
anni fa aprendo un suo concerto in Calabria grazie all’associazione Aspettando Godot di Pino Calautti.
Ero già innamorato delle sue canzoni da ragazzo e lo avevo
ascoltato in qualche concerto dal vivo ma, ovviamente, aprire i suoi concerti è
stata una grande emozione per me, perché l’ho sempre considerato un paroliere
formidabile, molto vicino alle mie idee ed alle mie sensazioni.
Poi, quando mi ha regalato il brano Il grande freddo, incluso nel disco, mi sono veramente emozionato,
mi son detto “Cavolo! sto cantando le canzoni
di Claudio Lolli, con cui sono cresciuto”.
Nel mio piccolo ho tentato di interpretare il brano secondo
il mio personale “sentire”, alla fine sono rimasto soddisfatto del mio lavoro,
ai posteri comunque l’ardua sentenza».
Quanto le
collaborazioni d’autore possono arricchire il proprio lavoro e la propria
professionalità?
«Moltissimo.
Arricchiscono molto sia dal lato umano, sia da quello
professionale.
Da soli nella vita non si fa nulla.
In effetti, a pensarci, si può stare anche da soli ed avere
sempre ragione credendo che la vita sia questa, si può morire felici anche così…».
Il percorso creativo
è un complesso ed affascinante mistero che oggi, a volte, viene svalutato e
mercificato a discapito della sua grande potenza energetica e della libertà
creativa ed espressiva.
Come nasce, si
sviluppa, da dove trae ispirazione il tuo percorso creativo, quale strade segui
per arrivare dall’idea alla sua realizzazione concreta?
«La creatività ha poco a che fare con le vendite, è un dono immateriale.
Io credo che in tutte le epoche ci siano stati molti talenti
sprecati, perché molta gente che trasforma in mito certi fenomeni della musica,
della pittura, della letteratura, in realtà sia indotta a crederlo perché il
sistema questo gli propone.
Provate a mettere un violinista di fama internazionale in
strada, scommetto che oltre a qualche complimento e 4 spicci tornerà a casa con
la pancia vuota e l’orgoglio distrutto.
Dico questo perché è già successo, solo non ricordo chi fosse
l’artista che l’ha sperimentato sulla sua pelle.
La mia creatività, forse, è ereditaria, mio nonno scriveva
poesie che praticamente erano delle ballate.
Sicuramente essere creativi è un dono, sinceramente non so
ancora fino a che punto lo sono, ma credo che sia difficile esser creativi in
una società dove il cervello viene spento accendendo la TV, i computer e altre cazzate del genere».
In Italia la Cultura,
intesa a 360°, non ha molto spazio e, soprattutto, non ha l’attenzione che
merita, seppure sia uno dei punti più forti del nostro Paese, oggi come per il
futuro, qual è la tua personale ricetta per dare una decisa e forte spinta in
questa direzione?
«Diciamo che io personalmente per cultura intendo ciò che si
avvicina alla madre terra, una cultura ormai persa da generazioni e, a parte le
rappresentazioni dei nostri lontani antenati, credo che si faccia un torto a
chiamare cultura quello che oggi viene proposto.
Posso dire che per me l'unica soluzione è quella in cui
ognuno, nel suo piccolo mondo personale, dia un contributo per ritrovare il
nostro lato umano perduto, allora, poi, io credo che la creatività e la cultura
nasceranno spontaneamente strada facendo.
Forse, la soluzione sta proprio nell'uscire da questa Fabbrica di Uomini?».
Indicaci le 5 regole
d’oro per diventare un artista di successo senza perdere mai di vista la propria
identità.
«Non Essere Come Gianluca Lalli».
Barbara Saccagno
lunedì 20 ottobre 2014
L'economia sociale: sulla soglia di un concetto importante per tutti
Se
dovessi affrontare tutte le ragioni teoriche per cui ci serve l'economia
sociale tanto da non poterne fare veramente a meno, sarei costretto a fornire
un'impalcatura etico-morale e poi dovrei perorare necessariamente la causa, -
la “nuova” causa -, cercando di convincere il pubblico sull'importanza
dell'impostazione.
MINESTRA INSIPIDA: NO
GRAZIE
Il
risultato sarebbe, nella migliore delle ipotesi, uno strano sermone sul valore
morale dell'economia sociale: una minestra insipida che non nutrirebbe nessun
cervello, nemmeno il mio...
Allora
entrerò direttamente in argomento con un esempio che mi sembra molto appropriato:
sarà un po' lungo spiegare ma ne varrà la pena, spero.
Allora
non occorre allacciarsi le cinture di
sicurezza, tanto potete scendere quando volete!
Stamattina sono andato in aeroporto per i miei
consueti viaggi di lavoro, avevo il volo
alle 07.10 e mi sono presentato al terminal alle 05.50 con il check-in già fatto, foglio intonso,
fresco di stampa.
.
CHECK IN/CHECK OUT
Rimango
sbalordito dalla fila per l'accesso al
volo: mi trovo davanti qualche centinaio di persone che sono tutte lì da
tempo nonostante l'orario antelucano.
Il
foglio mi si stazzona in mano esattamente come il mio morale.
Parte
l'esame coscienziale.
F. B. «C***o, mi sono alzato alle 04.00, abito a 50 minuti di macchina da qui, mi hanno fatto perdere un sacco di tempo al parcheggio, arrivo 1 h e 20, dico 1h e 20 minuti, prima del volo e scopro che praticamente l'ho già perso e avrò un sacco di problemi per tutto questo!».
S. I. «E già, lamentati pure ma
guarda che gli altri che sono qui, si
sono semplicemente alzati prima di te, prenditela con te stesso che sei
lento la mattina!».
F. B. «Oh
mi sono alzato alle 04.00, sono arrivato alle 05.20 al parcheggio ci hanno
messo mezz'ora a scodellarmi qui perché hanno aspettato che la navetta fosse
piena per fare un viaggio in meno, che vuoi da me?!».
S. I. «Poverino, uno
che lo sente potrebbe pensare che non ha fatto nulla che lui è innocente: lo
sapevi che c'era gente, dovevi alzarti un'ora prima ancora...»
F. B. «Alle 03.00! ma sei pazzo!
Per
tanto così prendevo il treno!
Scusa,
sarei pure arrivato nel pomeriggio bello riposato e non così shakerato già al mattino presto».
S. I. «Sì, bravo commiserati, e adesso cosa farai?
Lo sai che devi andare in fondo alla fila da bravo
bambino e non fare il furbo, vero? Non ti azzardare, non ci provare!».
F. B. «Senti, di
necessità virtù io:
non posso perdere il volo, ho un lavoro che mi attende con almeno 30 persone
che mi aspettano.
Non posso semplicemente.
Mi
spiace per gli altri ma devo saltare almeno un po' della coda, non dico tutta
ma quanto mi basta per arrivare al gate
in tempo...”.
S. I. «Che cosa?!?
E
vorresti fare quello che fanno tutti?
Vuoi fare il
furbo come gli altri?
A questo punto spengo il circuito
della coscienza o del Super-io,
che sparisce dalla mia mente con un urlo la cui eco accusatoria mi accompagnerà
per buona parte della mattina e semplicemente
mi piazzo con aria da santarellino un po' svagato a tre quarti della coda:
intendiamoci, mi sento veramente una cacca
e odio fare queste cose ma davvero non
mi viene in mente una soluzione migliore di questa.
Mi infilo fra due inglesi che lascio
accuratamente davanti a me visto lo sguardo assassino del tipo “provaci e sei morto!” e un piccolo
gruppo di connazionali rassegnati che mi
guardano come il solito furbetto del quartierino: proprio l'alta figura sociale
e morale che vorrei incarnare e per la piena identificazione con la quale sono
anni che lavoro.
Il
Super-io cerca di riaccendere il meccanismo della coscienza, ma io giro la
rotella sull'impostazione manuale e gli impedisco di parlare...
ATTENTI AI FURBI
ATTENTI AI FURBI
I rassegnati mi sopportano con una pazienza
degna di un monaco tibetano; quanto ai due inglesi, - una bella coppia tra l'altro, soprattutto
lui, bel volto di mezza età occhi di ghiaccio, mi trapassa con lo sguardo
e ogni tanto mi scruta con aria spavalda come a dire:
«Ce l'hai fatta eh s*****o?
Non ti hanno detto nulla ma
io ti avrei spellato e messo sotto sale»”
Il
Super-io ci riprova, ma io tengo ferma la rotella.
LA VOCE DEGLI ECONOMISTI
Mi
guardo indietro e scuoto la testa: davvero non avrei potuto seguire la file e
il mio destino a meno di perdere l'aereo.
Mi dispiace
veramente per gli altri ma la soluzione che ho trovato è la meno indolore per
tutta l'umanità me incluso: io non perdo un'occasione importante e tolgo molto
poco agli altri, consapevole del fatto che, se tutti ragionassero così...
Rimetto
in manuale e allontano la mano del Super-io che ci stava quasi riuscendo.
Sul depresso andante, penso a cosa direbbero gli economisti.
Riesco
a figurarmelo benissimo.
Il classico
neo-malthusiano direbbe che siamo in una classica situazione di sovrappopolamento
con troppi player per poche risorse che devono essere distribuite fra molti, l'obiettivo “dare a
tutti” è improponibile.
Il neokeynesiano
aggiungerebbe che c'è una tara di mercato e che
è l'inefficienza dell'organizzazione
probabilmente dovuta ad un prezzo del biglietto troppo
basso che, a sua volta, impedisce giusti
investimenti.
Il neoliberista,
d'altra parte, sottolineerebbe che in realtà il prezzo
va bene e che si poteva operare una scelta
migliore limando i costi di produzione con alcune strategie low-cost.
Qualche osservatore
radicale urlerebbe che, ancora una volta, è un
difetto di sistema e che, in realtà, qualcuno
vuole arricchirsi alle spalle dei cittadini o dei viaggiatori proponendo servizi che non può mantenere veramente, sfruttando la manodopera e i lavoratori, aggirando
l'intelligenza del consumatore che viene messo
in una posizione difficile in cui non può operare
scelte razionali ma solo subire gli
eventi.
Quest'ultima
dichiarazione mi fa sentire meglio: non è colpa mia, io ho fatto tutto il possibile, neanche
quelli che sono qui con me sono colpevoli di nulla, cercano in fondo
di prendere solo un aereo e non hanno possibilità di scegliere diversamente.
Facciamo quello
che possiamo con gli strumenti che abbiamo: il senso di colpa svapora leggermente.
Se non fosse per questo
inglese che,
tra l'altro, ha l'aereo pure 10 minuti prima di me e se ne sta serafico in stato paranirvanico senza agitarsi
al pensiero di perderlo!
Non
poteva essere un levantino o qualsiasi altro con cui un italiano non ha
complessi di inferiorità morale?
Mi
riguarda beffardo, ma, ad un certo punto, la sua attenzione viene sviata su
altri casi umani più gravi del mio: reggo il suo sguardo con un lieve sapore di
trionfo.
Gli dico
mentalmente, tanto so che mi sente:
«O cittadino della sacra Albione, tu che giudichi
tutto con la rettitudine morale arrivata a te da generazioni di ottimi
cittadini, tu mi guardi come un essere subumano ma allora come consideri gli altri?
L'hai vista quella stangona mora, stile fotomodella che dal fondo della fila è saltata in cima con aria da “adesso passo io e guai a chi mi dice qualcosa”?
L'hai vista quella stangona mora, stile fotomodella che dal fondo della fila è saltata in cima con aria da “adesso passo io e guai a chi mi dice qualcosa”?
Non
ti sembra uno di quegli agenti della CIA che potrebbero farti fuori con una
mossa di “kissà kuale arte marziale”?
Che mi dici degli “splendidi” che entrano in palese ritardo nel terminal e decidono istantaneamente che loro la fila non la faranno mai e si infilano direttamente in cima?
Cosa
speculare moralmente su quell'intera scolaresca
che, rimasta fregata come tutti, viene indotta dalle insegnanti a saltare
la fila puntando sulla precedenza
etico-sociale che si deve ai bambini?
Li hai notati quei signori anziani che fingono di non capire nulla che loro, poverini, con la tecnologia non ce la fanno proprio e quindi non lo sanno proprio dove devono andare ma intanto vanno il più avanti possibile?».
Sembra avermi capito, mi sorride non più sornione, mi ha assolto: mi rilasso.
Li hai notati quei signori anziani che fingono di non capire nulla che loro, poverini, con la tecnologia non ce la fanno proprio e quindi non lo sanno proprio dove devono andare ma intanto vanno il più avanti possibile?».
Sembra avermi capito, mi sorride non più sornione, mi ha assolto: mi rilasso.
Mi
rideprimo, ho appeno scoperto che quella a
cui ho veramente tolto il posto in realtà ha il volo 10 minuti prima del mio:
comincia a rumoreggiare che non ne può più, che tutti le passano avanti, che
lei non ha saltato la fila, ha fatto il suo dovere e che succede nel nostro Paese quando uno fa il proprio dovere fino in
fondo?
Viene fregato da tutti,
ecco cosa succede!
Mi arriva un
coppino dal mio Super-io,
ma io gli
ricordo la necessità economica, la madre e la vera causa di tutte le scelte
socio-economiche: che stia zitto
lui che tanto di queste cose non capisce niente è solo un misero moralista che preferisce morire sul pezzo,
piuttosto che adattarsi alle vere esigenze della vita.
Dopo
la sfuriata intestina, mi sento meglio.
L'inglese poi mi sta sorridendo benevolo: “non sei in fondo così cattivo, guarda quanti
altri s*****i, tu hai fatto male ma poi
non così tanto... “
Gli sorrido grato e più leggero ma non riesco a sostenere moralmente lo sguardo della mia connazionale dietro di me e con l'aereo prima di me, quella a cui io ho tolto un minuto di coda!
Ehi, ma che succede?
Vengo lievemente spintonato
da uno che cerca di infilarsi alla chetichella con aria gentile: riconosco il patetico
tentativo di un improvvisato nello stile “vorrei
fare la fila ma non posso e ti chiedo almeno il permesso ma tu un po' me lo
devi altrimenti io perdo l'aereo e sei
tu lo s*****o!”
Proprio
non ci sa fare: intanto non è della nazionalità giusta per essere credibile,
poi finge troppa umiltà e condiscendenza, mostra a tutti il biglietto, si
giustifica con eccessiva affettazione ma con
l'inglese non c'è niente da fare!
Senza nemmeno scomporsi, questo gli dice nella
sua lingua che l'altro non capisce o finge di non capire, che anche lui ha lo
stesso problema e che la fila è per
tutti, è una questione di civiltà: lo educa come fosse uno scolaretto colto
in fallo, voce pacata, modi gentili ma la più ferma fermezza.
L'altro, abbacinato da
cotanta lezione di civiltà plurisecolare, rimane bloccato o meglio paralizzato,
chiedendosi come fare ma intanto è
arrivato almeno davanti a me.
Voglio
dire ne ha fatta di strada.
LEGA ITALO BRITANNICA vs
PASSEGGERI SFIGATI
1 – 0
Ma
che altro succede?
Due splendidi
si stanno infilando direttamente in cima alla fila senza nessun riguardo: sta per intervenire
l'inglese ma lo precede una signora di
una certa età, stile professoressa con aria decisa che li blocca richiamandoli al loro dovere.
Gli
splendidi non arretrano e fanno resistenza.
Intuisco
pezzi di frasi:
«Ma che dobbiamo fare?
Oh! c'abbiamo il volo?!?
Lo volete capire?»
L'accento
partenopeo non li aiuta decisamente e la prof. incalza sostenuta dall'inglese
che non parla italiano ma si fa capire benissimo.
Intanto il fermato
dall'inglese assume un'aria da recluso di Alcatraz, un misto di rassegnazione
e di desiderio di fuga...
La lega italo-britannica
respinge gli splendidi
che sono costretti a mollare qualche metro di fila.
Qualcuno commenta a voce alta: «ma
scusate perché non fate il fast track?»
Sapevo
di questo servizio ma credevo che si trattasse di qualcosa che si compra
all'atto dell'acquisto del biglietto, non dopo e tanto meno lì, quando sei già
stato fregato...
Senti, senti scopro che in realtà si può accedere ad una fila molto
minore pagando solo 10 euro:
mi riprometto di approfondire.
LA DURA LEGGE DEL GOAL
Siamo giunti
nella parte terminale
dell'interminabile coda del terminal:
si vede la meta ormai, si è
confortati dal fatto che noi almeno ce
l'abbiamo fatta e con la tristezza mista al sadico piacere di chi è ormai
oltre.
Il recluso, il fermato dall'inglese,
ha un guizzo, alza gli occhi al cielo e con sguardo vuoto si infila tra le
transenne direttamente alla fila del metal
detector.
Si è salvato.
Riflessioni
sulla condizione umana gravano sulle nostre menti e sui nostri cuori:
Cosa avremmo potuto fare di diverso?
Come aiutare gli esclusi, gli “atterriti” e gli “atterrati” come
evitare che diventino altrettanti “atterroristi”?
Intanto però decido di approfondire sul fast track e fermo una hostess che mi conferma che sì, si può
fare al costo di 9 euro e lì alla cassa
a 10.
Come
tutti, mi annoto mentalmente che la prossima volta avrò almeno due opzioni:
1 opzione uno, alzarmi alle 3 come proposto dal mio simpatico Super-io
1 opzione uno, alzarmi alle 3 come proposto dal mio simpatico Super-io
oppure
2 opzione due, pagare 10 euro e respirare sereno.
2 opzione due, pagare 10 euro e respirare sereno.
Già ma se poi tutti
scelgono la seconda come farò ad evitare l'ulteriore coda?
Boh, chi vivrà vedrà!
LO SCOPRIREMO SOLO VIVENDO
Siamo al metal
detector, l'inglese che, sotto la sua giacca, rivela una camicia stazzonata
e fuori dai pantaloni, non ha messo la cintura nell'apposita vaschetta, cerco di aiutarlo come posso ma lui non fa
sconti, mi tratta come se fosse nel suo buon diritto – come in effetti è –
di avere una vaschetta aggiuntiva e non ha bisogno di aiuto.
Che palle però!
È tutto pieno ma siamo salvi e questa consapevolezza ci rende
pazienti e capaci di sopportare
tutto anche il fatto che ci trattano come viaggiatori
di terza classe rispetto a quelli che hanno usufruito del mitico fast track i quali entrano al metal detector come
se fossero iscritti ad un club
esclusivo.
GLI EROI DI HOGAN
Finalmente
arrivo al gate 10 minuti prima del
mio volo!
Ce l'ho fatta, è stata già
una lunga giornata.
C'è
uno dei miei compagni di prigionia che mi guarda severo, si ricorda ancora che
ho fatto il furbo.
Distolgo lo sguardo e chi
vi vedo?
La stangona
fotomodella, la probabile agente CIA
che aveva saltato la fila a piè pari, che placidamente seduta sta
sbocconcellando una colazione con tutta la calma del mondo. Aveva tanta fretta evidentemente di fare
colazione, penso amaro.
Vorrei telefonare
all'inglese e denunciarla ma faccio parte anch'io dei rei e non posso
permettermi una reclusione in un carcere britannico: devo mandare giù il rospo
morale.
Consegno il biglietto al gate, mi sembra il giorno in cui mi sono laureato e mi hanno
proclamato dottore: provo un grande
senso di liberazione. Io comunque sia ne sono fuori, ho vinto.
NON È TUTTO ORA QUEL CHE
LUCCICA
Mentre
assaporo questa ebbrezza, ecco che arriva un tizio ansante e trafelato: si
guarda in giro in cerca di un volto amico, gli sorrido, mi inquadra.
«C***o non si può cominciare così la
giornata, mi verrà un infarto e solo per prendere un aereo, e pensare che ho
fatto pure il fast track!».
Questo mi colpisce e gli chiedo perché ha dovuto correre se aveva comprato il magico
servizio saltacoda.
«Quella m***a di macchinetta si era inceppata
e non accettavano i contanti, solo carte di credito o bancomat e ci tenevano
lì.
Se fossimo rimasti in fila
normalmente, avremmo fatto prima…».”
Bisogna che riveda un
momento l'opzione due...
Voi
a questo punto penserete tante cose spero più gentili di:
«Ci hai fatto
perdere un quarto d'ora con sta p*******a” »;
«Se hai questo
dialogo interiore, ti sei rovinato da grande o sei caduto dal seggiolone»;
«Benvenuto nella
realtà, siamo circondati da s*****i e tu ne fai parte»;
«E così, hai
saltato la fila, brutto b******o».
Intendiamoci,
sono tutte reazioni comprensibili, però la sentenza peggiore, quella che
proprio non potrei accettare, è:
“Gli economisti hanno ragione”.
Quanto
precede non mi offende, - non può offendermi – perché umanamente contemplabile.
Rispetto alla mia salute
mentale, va detto che sono sposato con uno psichiatra, il che aiuta decisamente perché c'è il conforto del
tecnico a casa, pur appesantito dalla certezza della diagnosi che, invece,
disillude bruscamente.
No, il problema
vero è che invece potete credere a uno o più dei pareri che vi ho riportato nel
racconto, per intenderci dal neomalthusiano all'osservatore radicale.
Può sembrare un
problema da niente,
qualcosa per cui non vale la pena scrivere o procedere con la cultura ma crederci genuinamente e costruire la
propria/altrui esistenza o regolare la convivenza civile su basi
intellettualmente così piccole, ci toglie la speranza e, nello stesso momento, ci condanna
davvero al cinismo di cui l'economia si nutre.
IO E/O NOI?
IO E/O NOI?
Tutti crediamo
nel teorema che l'economia sia il perseguimento dell'interesse egoistico contro
quello sociale ma alla fine chi lo ha detto?
Chi
lo ha sancito per tutti noi e nello stesso tempo?
Perché dovremmo
accettarlo come se fosse un fatto atavico, ineluttabile, quasi “genetico” nella
razza umana e quindi incontrovertibile?
L'esistenza,
- e meno male!- è molto più complessa e varia di un pensiero solo tra l'altro
vecchio di secoli e mai veramente aggiornato: perché non dovremmo mettere in discussione
un teorema che pur nella sua apparente razionalità ci fa vivere meschinamente?
Si tratta solo
di ripensare e riprogettare anche se prima dobbiamo capire e darci una
direzione.
Questo
è lo scopo di questa serie di appunti.
Ma
lasciatemi spiegare perché l'ho fatta tanto lunga con aeroporti e code al terminal.
IL TEOREMA DELLA FILA IN ATTESA
Se
noi riduciamo la storiella
che vi ho appena raccontato e che avete avuto la pazienza di leggere, all'oggettività
del teorema, cosa troviamo?
In
un contesto puramente sociale, ci sono dei soggetti che interagiscono in
condizioni tali per cui le informazioni non circolano completamente e
perfettamente e le risorse vengono allocate non esattamente tanto da generare
la sensazione che siano scarse rispetto al richiesto e all'atteso.
La
frustrazione della domanda
– come direbbero gli economisti - e le poche alternative inquadrabili sulla base
delle informazioni in possesso della media dei partecipanti determinano una
condizione di rigidità e di difficoltà di cui tutti i soggetti possono avvertire la
limitazione.
La soluzione
economica più semplice
e che sembra risolvere, è quella di trasformare il bisogno così generato in un servizio di
cui si può godere proprio per evitare la frustrazione.
È proprio
semplice, basta pagare qualcosa in più e si è fuori dal problema: è la soluzione più
adottata oggi dall'economista o dal decisore pubblico e privato.
Dietro questa apparente
semplicità, ci
sono però tante importanti decisioni prese inconsapevolmente:
1 non si prende la frustrazione come un segnale ambientale da comprendere
bene per cambiare le cose,
si pensa che sia una variabile non eliminabile: è un dato ambientale e non un
segnale;
2 la generazione di un servizio per togliere la frustrazione determina la presenza di un gruppo di esclusi che dovranno subire la situazione in tutta la sua rigidità e a niente varrà l'aver tolto dalla quota totale i pochi che impiegheranno il servizio;
3 non si valutano alternative (progetti, proposte, idee) che possano rendere migliore la condizione di tutti: si rimane sull'idea del servizio che sembra essere più facilmente gestibile, senza pensare di poter fare meglio;
4 di fronte all'aggravarsi della situazione e all'incapacità di migliorare il servizio, l'organizzazione delle risorse si rivela insufficiente ma non si ritiene di poter intervenire con un'organizzazione di livello superiore: si pensa che i consumatori adotteranno strategie migliorative in quanto soggetti intelligenti o che addirittura il servizio, pur insufficiente, sia una nuova entrata;
5 banalmente non si forniscono nemmeno le informazioni di accompagnamento veramente in grado di cambiare la percezione del dato reale in modo, ad esempio informando del problema al momento del check in online;
6 il consumatore sarà quindi indotto ad una serie di scelte non creative tipiche dei contesti violenti che si tradurranno in comportamenti non capaci di migliorare la condizione stressante e che sono riconducibili a questi: accettazione rassegnata, accettazione rivendicativa, non accettazione con strategie di miglioramento individuale con poco danno degli altri, non accettazione con strategie di miglioramento individuale e danno maggiore per gli altri.
2 la generazione di un servizio per togliere la frustrazione determina la presenza di un gruppo di esclusi che dovranno subire la situazione in tutta la sua rigidità e a niente varrà l'aver tolto dalla quota totale i pochi che impiegheranno il servizio;
3 non si valutano alternative (progetti, proposte, idee) che possano rendere migliore la condizione di tutti: si rimane sull'idea del servizio che sembra essere più facilmente gestibile, senza pensare di poter fare meglio;
4 di fronte all'aggravarsi della situazione e all'incapacità di migliorare il servizio, l'organizzazione delle risorse si rivela insufficiente ma non si ritiene di poter intervenire con un'organizzazione di livello superiore: si pensa che i consumatori adotteranno strategie migliorative in quanto soggetti intelligenti o che addirittura il servizio, pur insufficiente, sia una nuova entrata;
5 banalmente non si forniscono nemmeno le informazioni di accompagnamento veramente in grado di cambiare la percezione del dato reale in modo, ad esempio informando del problema al momento del check in online;
6 il consumatore sarà quindi indotto ad una serie di scelte non creative tipiche dei contesti violenti che si tradurranno in comportamenti non capaci di migliorare la condizione stressante e che sono riconducibili a questi: accettazione rassegnata, accettazione rivendicativa, non accettazione con strategie di miglioramento individuale con poco danno degli altri, non accettazione con strategie di miglioramento individuale e danno maggiore per gli altri.
Per
l'economista il problema era già stato risolto con il servizio e
l'aziendalista, come l'operatore commerciale possono addirittura arrivare ad
ipotizzare un vantaggio competitivo e una frammentazione dell'offerta ottima
per produrre margine o economicità per l'azienda.
NON SPARATE SUGLI
ECONOMISTI
Io
non ce l'ho con la categoria degli economisti e proprio con nessun economista in
particolare, non ho motivo di rancore verso aziendalisti, politologi,
commercialisti, fiscalisti, decisori economici, statalisti, statistici,
statisti.
Lo
dichiaro apertamente: il mio nemico è il cinismo diventato regola di comportamento
razionale e auspicabile - perché di questo si tratta in ultima analisi – che
demotiva la gente a cercare soluzioni migliori e più capaci.
AIRPORT CASE HISTORY
Nel
caso in esame, il profilo delle decisioni assunte, probabilmente
inconsapevolmente e solo per routine,
produce una certa sfiducia da parte del consumatore che può cogliere la
possibilità più ampia di scelta che gli spetterebbe naturalmente e, per contro,
la riduzione del suo diritto ad un servizio a pagamento che grava su di lui per
consentirgli un semplice accesso al gate
e – si badi bene - non per un valore aggiunto reale.
L'economista, in
ultima istanza, crede che il consumatore sia solo accettante e rassegnato e che
si farà furbo con l'esperienza:
non immagina,
per esempio, che un soggetto possa decidere di non usare più l'aereo o quella
compagnia o che possa usare gli stessi servizi con comportamenti distratti e
negligenti che alla lunga deteriorano gli aeromobili o gli spazi dedicati più
in fretta di quanto sarebbe normale o, ancora, che addirittura arrivi a creare
strategie antisociali (i famosi splendidi o le agenti CIA) che aggravano la
condizione generale.
Sembra non
interessargli la sofferenza,
la lieve e la grande, come se non fosse un suo problema e nemmeno si preoccupa del fatto evidente che
tutto ciò produce una massa di consumatori scontenti che non adotteranno più i
servizi a valore aggiunto (il volo in questo caso).
Alla
lunga, la compagnia potrebbe essere costretta a determinare delle politiche di
attrazione della clientela con leve diverse, diminuendo il prezzo solo per
alcuni orari o combinazioni di tratte, con una fatica di progettazione
crescente.
Ma,
in fin dei conti, tutto questo si rivelerebbe temporaneo e inutile perché non
si è voluto considerare debitamente la variabile più importante: la dimensione
sociale.
Questa
ha poco a che fare con social media, sms inviati in orari assurdi o moduli
informatici di feedback, no, si comincia a
cogliere questa dimensione quando ci si propone di progettare onestamente il
servizio pensando davvero di essere uno di quei disgraziati che si
sono alzati alle 04.00 e volevano prendere l'aereo alle 07.10.
Francesco Bernabei
Credits
Images: Openphoto. Net (Meal – Miroslav Vajdić); Eunomica (Volandia, Stones,
Light, Bonda, Hand, Chioggia, - Gargoyle, Place Messena, Palazzo Mazzetti, Wool
– B. Saccagno). Vettorialigratis.it (Walking People, Pittogram signs – All
Silhouettes; 30 icone educazione scuola educational icon set – danocreative,
Angeli con campane - s.a., Sexy Woman – s.a), Imagebase.net (Imaginebase25 82 –
s.a., Grieving man statue – s.a.), Wikipedia (Union Jack); Alamy (CRC8EP – Sean
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