giovedì 15 gennaio 2015

Quando è necessaria la legge di Necessità? - Appunto 2







Uno dei fondamenti logici del pensiero economico moderno e contemporaneo risiede, secondo me, nella “Legge di Necessità”.




Per comprendere la portata di questo concetto è utile prima andare alla radice del principio morale e pratico dell'agire economico che è molto semplice - come del resto quasi tutto nel pensiero economico - ed è riconducibile ad una o tutte le seguenti sentenze:


ü  Tutti fanno quello che possono con gli strumenti che hanno

ü   Ognuno cerca di massimizzare il proprio profitto con tutti i mezzi che possiede

ü  La felicità consiste nel poter elevare la propria condizione senza limiti di sorta

ü  La democrazia è il sistema sociale in cui tutti possono essere felici perché sono liberi di elevarsi senza limiti

Si tratta di affermazioni che tutti sottoscriveremmo a cuor leggero: come non essere d'accordo con libertà, felicità, massimizzare e strumenti?

Ehi, un momento, c'è qualcosa di strano?






Sì, perché mentre con “libertà” e “felicità” (quasi) ci capiamo, con “massimizzare” e “strumenti” arriviamo al classico dilemma della mia libertà contro quella degli altri e cominciamo a chiederci fino a che punto sia lecito “massimizzare” e di quali “strumenti” stiamo parlando: legali/illegali, normali/violenti, leciti/illeciti...
Non ce ne siamo neanche accorti e siamo caduti nel moto ondoso della discussione filosofica!!!

Siamo attaccati a pezzi di legno che galleggiano a stento, ovvero i concetti che ci stiamo formando, che ci abbandonano sul più bello e ci lasciano in balia delle onde della confusione! 

I marosi ci minacciano, le oscurità marine sembrano ospitare esseri non amichevoli e noi possiamo contare solo sulle nostre braccia ma non si vede la terra, è notte, siamo soli....

A questo punto, l'economista, già stufo di tante chiacchiere, si alza e dichiara semplicemente che l'unica sentenza veramente utile è che :

Tutti operano necessariamente per il proprio massimo interesse, con i mezzi fisici, intellettuali, morali, sociali, politici, all'interno delle leggi e/o usi dei gruppi umani e nazionali in cui si trovano ad agire: se esiste contrasto fra leggi e usi non è cosa che riguarda l'economia ma la giustizia e lo stesso vale per la definizione dei limiti etici, morali o di legittimità individuale o politica.

Beh, non c'è che dire, una cosa così ci salva, ci fa uscire dal moto ondoso e ci fa approdare su di un'isola assolata ma misteriosa: non siamo ancora salvi, non abbiamo capito, ma non siamo più soggetti ai pericoli del mare aperto, siamo sulla solida terra.
Non possiamo che addentrarci nella foresta vergine, necessariamente...

LA FAVOLA DI TEMPEH, IL MONACO

Grossi insetti ci girano intorno volando e strisciando, - saranno pericolosi? - strani movimenti scuotono il fogliame – chissà quale animale sarà? - abbiamo bisogno di un riparo e di acqua, le prime cose che occorre procurarsi necessariamente, poi il cibo poi capire dove siamo, quindi cercare di tornare a casa...
Ma cosa c'è lì?
Un filo di fumo!

Dove c'è fumo c'è speranza, ci saranno degli uomini, ma come saranno?
Socievoli o selvaggi indiavolati magari arrabbiati con l'uomo bianco?

È qualcosa che non può restare senza risposta, si deve necessariamente andare ma di nascosto, sarà meglio prima studiare la situazione...
Il filo di fumo viene da una capanna di giunchi appena distinguibile dalla vegetazione circostante, - quindi c'è vita in questa foresta concettuale!


Eccolo, c'è un uomo con fattezze orientali, piuttosto anziano che è appena tornato dalla pesca: ha l'aria affabile, sembra bonario, dobbiamo rischiare, forza, facciamoci avanti...

Usciamo dall'ombra e proviamo con un «Buongiorno», l'uomo ci vede, urla e fa per scappare, ma inciampa e rovina per terra brutalmente... gli siamo vicini e cerchiamo di alzarlo ma lui non ne vuole sapere, scalcia e grida di non ucciderlo – Beh, almeno parla la nostra lingua! -.


Cerchiamo di tranquillizzarlo, siamo dei naufraghi, gli spieghiamo, non abbiamo nessuna intenzione di uccidere niente e nessuno – se non necessariamente – (← questo era meglio non dirlo perché si agita di nuovo) e ci interessa solo un riparo, dell'acqua e del cibo.
Se ci darà una mano, gliene saremo grati...
Noi siamo tanti, lui è da solo e necessariamente decide di aiutarci.

Ci chiede, però, qualcosa che non comprendiamo: «Vi hanno mandato loro?».

Dopo averci rifocillato per bene e sistemati a dovere, è il momento delle presentazioni e dei chiarimenti.

Il vecchio si chiama Tempeh ed era/è un monaco.
Dice di aver perso il conto di quanto tempo sia trascorso da quando si è nascosto nella foresta concettuale.
Noi non capiamo ma gli chiediamo di raccontarci la sua storia.

Tempeh viveva in un monastero ai margini di un vasto regno, in una provincia felice dove tutto era regolato dai monaci che amministravano i beni di tutti con molta prodigalità e cordialità: tutti i beni e i servizi erano prodotti dalla società locale che non trascurava comunque importanti scambi e commerci con le altre province.
Tutti erano felici e realizzati ma un brutto giorno, il regno fu minacciato da altri sovrani e il re che non si era mai fatto sentire o vedere da quelle parti, inviò i suoi uomini per le tasse.

La questione era del tutto nuova per quelle contrade felici ma sostanzialmente questi volevano dei soldi perché il re ne aveva bisogno e siccome era padrone di tutto ciò che li circondava e, in definitiva, anche delle loro persone, ne aveva necessariamente tutti i diritti e poteva disporne come
voleva: qualcuno, più istruito, cercò di opporre qualche tentativo di resistenza ma non riuscì nemmeno a finire il ragionamento che i nuovi arrivati gli avevano inviato una cartella esattoriale.

Nessuno ci capiva niente ma il saggio intervento del Grande Monaco aveva trovato la giusta soluzione: che si chiarisse presto di che cifra si stava parlando e avrebbe provveduto il monastero a raccoglierla e inviarla. Gli emissari del re, soddisfatti, se ne tornarono a corte e presto inviarono la loro risposta: un documento molto strano dal nome in sigla e corredato di modulistica incomprensibile ma, d'altra parte, molto chiaro in fatto di dovuto.
Il Grande Monaco tradusse per tutti: tranquillizzò gli animi, era sì una cifra molto alta ma anche molto ragionevole, se divisa fra tanti se non tutti.
Insomma nessun cambiamento sostanziale nella vita di ognuno, solo bisognava dare necessariamente qualcosa di quanto si produceva al re, tutto qui: e ogni anno.

Si tirò un respiro di sollievo e si festeggiò.
Occorreva qualcuno che portasse i soldi al re, alla capitale.
Non un gran viaggio ma neanche una passeggiata.
Il Grande Monaco incaricò subito Tempeh di questo: Tempeh era ritenuto molto affidabile nonché il futuro successore del Grande Monaco stesso, chi più di lui?
Necessariamente lui.

Così Tempeh partì in brevissimo tempo e appena uscito dai confini della provincia venne assalito da una banda di briganti e spogliato di tutto, soldi compresi.
Riuscì a tornare a stento.
Il re si dimostrò comprensivo: chiese che si raccogliessero nuovamente i soldi delle sue tasse e dovette aggiungere necessariamente, per rispetto di chi aveva versato tutto in tempo, una piccola sovratassa...
Come non capirlo?

Il Grande Monaco non si perse d'animo e riuscì a rimettere insieme le finanze necessarie ma questa volta inviò con Tempeh una nutrita scorta di soldati appositamente arruolati.

Per quell'anno si riuscì a pagare ma l'anno seguente si ripropose il problema e ci si rese necessariamente conto che non si poteva inviare ancora un contingente di armati perché il costo era troppo alto e soprattutto bisognava rientrare anche del doppio pagamento delle tasse dell'anno precedente.
Il Grande Monaco non poteva chiedere a Tempeh di recarsi di nuovo da solo alla capitale con tutti quei soldi: prese accordi con una banca che applicando necessariamente un interesse accettò di effettuare il pagamento direttamente all'erario reale.
Tempeh avrebbe dovuto solo portare la cambiale e tornare con la ricevuta del pagamento.
Un gioco da ragazzi...




Il giorno dell'arrivo presso la sede della banca con cui si era firmato l'accordo, il direttore chiamò Tempeh e lo pregò di considerare la possibilità di investire quel denaro per qualche giorno in un prodotto finanziario innovativo
In pratica, si trattava di lasciare il denaro a disposizione della banca e di spostare l'operazione di pagamento delle tasse di qualche giorno.
In cambio la banca si impegnava a non praticare il tasso di interesse già previsto dal contratto e a riconoscere una piccola commissione.
Tempeh non poteva credere alle proprie orecchie: sarebbe tornato a casa da vincitore e tutti si sarebbero dimenticati di quello che era successo l'anno prima!
Chiese necessariamente delle garanzie e dato che non poteva discuterne con il Grande Monaco – il nuovo accordo finanziario era da chiudere subito altrimenti niente, si sa come funziona la finanza no? - pretese delle clausole in più all'interno del contratto.



Il contratto venne firmato con grande attenzione e rivisto da tutti i contraenti con estrema accortezza per poi essere completamente disatteso alla scadenza...

Semplicemente la banca non restituì i soldi che erano finiti necessariamente in un giro speculativo – come previsto dal contratto – da cui non erano recuperabili - si sa come funziona la finanza, no? -.

A Tempeh non rimase che tornare dalla sua gente con grande vergogna.



Il Grande Monaco lo ammonì severamente: venne processato ma si dimostrò necessariamente la buona fede di Tempeh e soprattutto che il contratto era regolare e non prevedeva la truffa.


Il re intanto si dimostrò meno disponibile della volta precedente e richiese il pagamento del doppio delle tasse annuali perché – così diceva l'ingiunzione dell'erario reale – non si poteva non tenere conto necessariamente dei contribuenti in regola con il versamento delle tasse rispetto a quelli che non lo erano: se non si potevano necessariamente premiare i primi, andavano necessariamente sanzionati i secondi.

Ma c'era di più: si trattava di una pratica corrente dell'erario reale che anzi la incoraggiava (e necessariamente ci guadagnava).

Il Grande Monaco, scagionato completamente Tempeh, propose quindi di fare causa all'erario reale e alla banca.

Rispetto al processo in atto, il re dichiarò di voler aspettare necessariamente il verdetto nutrendo piena fiducia nelle istituzioni preposte.


Tempeh però non si diede per vinto e consapevole di essere stato causa, suo malgrado, di quel disastro si recò alla capitale, con il permesso del suo monastero, e si mise a lavorare con grande tenacia a diversi progetti economici con il preciso scopo di recuperare il denaro perduto.

Il Grande Monaco che seguiva con grande interesse il suo operato, raccolse anticipatamente il denaro dovuto all'erario e glielo inviò perché lo investisse nelle attività promettenti che Tempeh era riuscito a mettere in piedi.
Nel giro di qualche mese, grazie all'intervento opportuno di diversi soci, Tempeh era riuscito nell'impresa di generare un capitale superiore del doppio rispetto agli investimenti: avrebbe consegnato le tasse dell'anno per conto della sua gente e sarebbe ritornato con un capitale da mettere a frutto nuovamente o di cui disporre per un altro anno.

Necessariamente si sarebbero dimenticati di quanto gli era successo e di tutte le brutte storie degli anni prima e lui sarebbe tornato ad essere il monaco che era, il migliore, il predestinato al soglio...

Il giorno previsto per il versamento all'erario delle tasse annuali, Tempeh scoprì che un socio era fuggito con la cassa e al posto di questa trovò un semplice biglietto in cui il malfattore così si esprimeva:

«Tempeh, sono molto dispiaciuto, tu sei un'ottima persona, ma io sono oppresso dai debiti e questo denaro mi salva la vita: ho dovuto farlo. Necessariamente».

Tempeh per un momento si dimenticò di essere un monaco e non riferiremo che cosa disse in quel frangente ma, sbollita la rabbia, si rese conto che non poteva tornare a casa anche perché non sarebbe riuscito a dimostrare la sua buona fede e il re sarebbe stato ancora meno comprensivo delle altre volte.


Si diede alla macchia e di peregrinazione in peregrinazione arrivò nella foresta concettuale dove lo abbiamo trovato noi...

Che dire? Una storia come tante, una situazione comune, forse una leggerezza da una parte e un po' di mancanze dall'altra, magari un'epoca ancora troppo arcaica per il diritto come lo conosciamo oggi ma una cosa è certa: se contiamo quante volte è apparsa la parola necessariamente, dobbiamo concludere che i personaggi in gioco non avevano molto spazio di manovra.

Necessariamente!


LA LEGGE DI NECESSITÀ

Proprio questo è il punto: quando esaminiamo i comportamenti umani secondo la legge di necessità, questi diventano standardizzati non (solo) perché prevale un certo spirito pratico- concreto prossimo al cinismo che viene con l'età, ma perché si devono immaginare relazioni causali concepite con lo specifico compito di “tenere” nonostante tutto.

Siamo indotti a questo perché dobbiamo prevedere come andranno le cose e non possiamo affidarci al buon cuore di alcuni o alle pie intenzioni di pochi se non alle rette azioni dei santi, rari, questi ultimi, quanto le mosche bianche.

No, noi dobbiamo parlare di masse e di comportamenti di massa e scommettere su quali saranno le azioni più probabili.

Si arriva alla legge di necessità perché diventa insostenibile l'alternativa: non si possono fare processi alle intenzioni e nemmeno si può perdere tempo a ricercare tutte le cause e gli effetti che ne derivano.
Si rimane semplicemente su di un terreno comune che sa di buon senso e di probabilità ovvero una dimensione la cui frequentazione non richiede eccessivo sforzo o capacità fuori dal comune: si parla delle cose per come è naturale che avvengano se si assume il principio che gli esseri umani sono imperfetti e che non faranno le cose che dicono di voler fare ma si assesteranno su di un piano d'azione in cui il confronto fra guadagni e perdite e quello delle possibilità rispetto alle difficoltà saranno i punti cardinali.
In seguito all'analisi semplice di questi fattori avremo le azioni più probabili e quindi quelle che si realizzeranno e sulle quali scommettere...

Come non vedere che questo modo di pensare ci condiziona al punto da determinare la realtà stessa in cui viviamo come la famosa profezia che si autoavvera?

Come non capire che la povertà intellettuale (se non morale) con cui trattiamo ogni tema della nostra esistenza individuale e collettiva diventa essa stessa la causa della povertà economica (se non morale) in cui ci dibattiamo?

Se tutti ci aspettiamo di essere in un mondo in cui è facile “essere fregati”, perché dovremmo fidarci di quelli che promettono di aiutarci a non esserlo tramite contratti e rapporti diversi dal solito?

Non saremo indotti sottilmente a rimanere nelle (poche) cose che conosciamo e che si sono rivelate sufficientemente affidabili da non deludere (del tutto) le nostre aspettative?

Che tipo di economia sarà allora quella della sfiducia e della necessità?

L’ECONOMIA DELLA SFIDUCIA E DELLA NECESSITÀ

Sarà banalmente quella in cui le relazioni sono costruite sulla tutela che deriva dagli strumenti coercitivi che il diritto mette a nostra disposizione ma siamo davvero e comunque esposti alla deriva degli elementi intercorrenti di volta in volta!

Mi rendo conto di non essere convincente perché non si vede altra via ma pensiamo ai fatti di cui siamo testimoni da anni e, con prospettiva storica, da secoli.


1 Imprenditori che costruiscono attività economiche di grande successo e poi intentano azioni legali sempre più significative spesso contro i propri figli perché le aspettative economiche hanno generato visioni differenti nel tempo via via sempre più inconciliabili fino alla rottura finale (spesso la chiusura o ricollocamento dell'azienda).

2 Finanzieri di grande capacità che sembrano riuscire a trarre denaro da ogni attività umana - anche la più improbabile - finché non commettono quell'errore che li espone al rischio e al ritiro.

3 Grandi banche, giudicate sicure del fatto loro, tanto da essere vissute come inaffondabili che invece affondano e buttano a mare il carico a partire dall'equipaggio!

4 Multinazionali dotate di grande profittabilità, ogni loro azione o obbligazione sembra economicamente onorevole e onorata ma che, alla prova dei fatti o alla lunga, si rivela non solo

non essere tale ma addirittura prossima alla truffa!

5 Aziende semplicemente solide in cui qualcuno scappa con il denaro o lo nasconde affrontando processi interminabili dai quali sembra uscire vincitore o (molto) poco perdente.

6 Imprese di grande successo e impatto grazie al benvolere della politica che con interesse intercede spesso e volentieri in loro favore o soccorso, con grande danno sociale.

7 Patrimoni personali enormi di imprenditori, finanzieri, capitani d'industria di attività già finite o fallite reinvestiti in attività finanziarie globali non del tutto chiare e con margini di guadagno impossibili per il 99,9% della popolazione mondiale.

8 Stati sovrani che si comportano come tali - nel senso di monarchi – nei confronti dei contribuenti ordinari e come questi ultimi nei confronti di semplici imprese pur di grandi dimensioni.

9 Contratti finanziari ideati per non dare ma per trattenere il capitale il più a lungo possibile senza pagare interessi.

Lo slide show potrebbe andare avanti all'infinito perché gli esempi e i fatti sottostanti si moltiplicano.

A questo punto, dotati di logica ordinaria, saremmo indotti a pensare che allora è vero che non bisogna allontanarsi dalla legge di necessità, non fidandosi di nessuno e cercando a nostra volta di metterci in una posizione di vantaggio relativo da cui non possiamo essere stanati se non a colpi di impugnazione contrattuale.

Eppure tutti questi fatti sono proprio avvenuti in regime di necessità e non di fiducia: se non è corretto affermare che essi sono derivati esattamente dalla mancanza di fiducia e dalla percezione negativa dei rapporti umani sottostanti ai contratti, è però doveroso osservare che i due appena citati elementi sono almeno implicati nel clima in cui il danno si verifica.

Se non posso fidarmi del mio socio, come posso avviare un'impresa con lui?

Se non ci sono rapporti vicini all'amicizia per la gestione di un'attività quali probabilità ho di superare le naturali difficoltà che ogni impresa porta in dote, dai casini semplici banalmente legati all'ordinarietà fino alle tegole difficilmente prevedibili?

D'altra parte, non è con il condonarsi quasi tutto come spesso gli amici, (quelli veri), fanno, che si può avviare e promuovere un'attività commerciale ed economica: ci sono degli impegni da assumere, delle azioni da portare a buon fine e delle pratiche da seguire, senza i quali comunque l'agire economico rimane vano nei propositi e negli obiettivi.

LA STORIA DELL’ECONOMIA È UNA STORIA UMANA

La storia dell'economia è solo una storia umana e non è, né deve essere, una brutta storia con il finale “e tutti rimasero falliti e scornati tranne uno o pochi che si salvarono scappando con il malloppo”:

È una storia di relazioni, come tutte le altre, in cui le aspettative, i processi decisionali, le incongruenze, le debolezze, le grandezze determinano i fatti che, spesso dopo attenta analisi, derivano non dalle azioni ma dalle qualità impiegate veramente.

Queste preesistono alle intenzioni forgiandole.

L'intenzione poi influenza il processo decisionale che risulta dotato di ulteriori qualità determinate in buona sostanza dalle stesse qualità dei gruppi umani toccati in qualche modo dalle relazioni che intervengono: su queste piovono anche le opportunità, i modi di pensare comuni, le eccezionalità di certi che condizionano in un senso o nell'altro.

Ed ecco arrivare i fatti.

Questi non sono stati dettati da una necessità ma da una complessità di relazioni non negative di per loro ma facenti capo a nodi stretti e tirati con determinate qualità.

Di queste si deve parlare se si vuole costruire qualcosa di solido e l'economia non fa eccezione, anzi: è la prima disciplina a dover essere sociale, necessariamente.









Francesco Bernabei


Credits Eunomica (Pria Biella, Soprana, Bordighera, Place Messena, Museo Martini Pessione, Bonda, Museo Gran San Bernardo, Lampioni Chiavari – B. Saccagno). Vettorialigratis.it (Pittogram signs – All Silhouettes; 30 icone educazione scuola educational icon set)



giovedì 8 gennaio 2015

Electricitas - Motore Poggendorf in action by Luciano Maciotta






Cari amici di Eunomica, iniziamo l'anno alla grande presentandovi lo step II del nostro strepitoso progetto Electricitas, mostrandovi il motore elettrostatico modificato su brevetto originale Poggendorf by Luciano Maciotta: funziona!

Monza - Atelier di Luciano Maciotta







lunedì 1 dicembre 2014

Intervista a Marco Pichetto






Sindaco, ideatore e coordinatore di Veglio CoWorking Project

Gentile Sindaco, prima di raccontarci il vostro interessante progetto, vorrei chiederle di darci una sintetica definizione di co-working.

«Ci sono molte definizioni di co-working, quella che più mi piace è quella che vuole che lo spazio che si condivide per motivi di lavoro sia anche uno spazio condiviso per idee, collaborazioni e, perché no, condivisione di una modalità di vita lavorativa e non solo, alternativa ai classici standard».

Veglio Coworking Project è un progetto molto interessante che ha ricevuto il primo premio al concorso nazionale indetto dalla Convenzione Alpi, nella sezione Progetti per i giovani.
Com’è nato e come funziona?

«Il progetto è nato abbastanza “per caso” nel momento in cui sono venuto a conoscenza del bando indetto dalla Convenzioni delle Alpi nell’ agosto 2011 ed è stata la naturale conseguenza di alcuni elementi/situazioni/esigenze  che c’erano a Veglio, ovvero avere degli spazi vuoti di proprietà comunale e non sapere come utilizzarli, il sentire di dover fare qualcosa per i giovani sia dal punto di vista di aiuti per avviamento al mondo del lavoro sia per il fatto di cercare di contrastare lo spopolamento dei giovani stessi verso altri luoghi e da una esperienza personale di condivisione di spazi lavorativi tra liberi professionisti che avevo avuto negli anni precedenti. 
Dal mix di queste diverse cose è nato il progetto su carta, l’ abbiamo candidato al premio e nel novembre 2011 abbiamo ricevuto la comunicazione ufficiale della vittoria al concorso, da lì, dopo poco più di 1 anno di lavoro tra progettazione definitiva, lavori di sistemazione dei locali, promozione, realizzazione del sito web ed arredamento dei locali, nell’aprile 2013 abbiamo inaugurato gli spazi del Veglio CoWorking Project alla presenza di 3 coworkers che da subito hanno aderito all’iniziativa. 
In breve si tratta di condividere degli spazi lavorativi attrezzati con postazioni da lavoro e cablati con linea internet a banda larga e con sala riunioni ed alcune attrezzature comuni, il tutto gratuitamente per quanto riguarda l’ affitto dei locali e con il solo onere di suddividersi le spese vive delle utenze, tranne la linea web che è garantita gratis dal Comune e dal partner MegaWeb di Biella.
Attualmente ci sono 6 postazioni attrezzate e 5 sono utilizzate».

In Italia, soprattutto nei piccoli centri, è ancora grande il digital divide; di fatto lo Stato non ha, a tutt’oggi, preso una direzione chiara ed efficiente per il sostegno e per lo sviluppo delle tecnologie digitali su tutto il territorio nazionale, che, purtroppo, ha molti gap da colmare e situazioni disomogenee.
Voi avete dovuto fare i conti con il divario digitale?
E se sì, come siete riusciti a superare l’ostacolo?

«Il divario digitale per i piccoli comuni di montagna è molto accentuato, a Veglio ad esempio non arriva la fibra ottica ed i cavi telefonici di Telecom non forniscono banda larga, che però fortunatamente, anche se non copre il 100 % del territorio, ci sono  altri operatori che mandano il segnale Wi-Fi tramite antenne e  che, come nel caso di MegaWeb che è società a prevalente capitale pubblico e gestita da Città Studidi Biella, nonché nostro partner del progetto, garantiscono banda larga Wi-Fi di buona qualità. 
Il Veglio Co Working Project tra l’ altro è stato inserito nei mesi scorsi tra le “buone pratiche” nei documenti di programmazione europea dell’ Agenda Digitale Alpina».

Nel nostro paese è, purtroppo, difficile puntare su progetti innovativi, perché spesso si deve fare i conti con una quasi atavica propensione a prendere le distanze dal nuovo, da quello che può cambiare i parametri e i percorsi canonici verso qualcosa di innovativo o, semplicemente, differente.
Come è stato accolto il vostro progetto dagli abitanti di Veglio e dai potenziali fruitori?

«Il solo fatto che il progetto avesse un nome “non italiano” , in prima battuta non è stato molto compreso, poi, quando lo si è spiegato bene e soprattutto hanno visto i risultati ottenuti, gli abitanti di Veglio ma anche i fruitori, lo hanno accolto molto positivamente, proprio perché è visto come qualcosa che funziona, che si può vedere e toccare e non come un semplice progetto su carta che, come spesso invece accade, rimane un bel libro dei sogni oppure una bella dichiarazione di intenti!».

In tempi di crisi puntare sulla tecnologia e sulla filosofia del downshifting - parola ostica con un profondo significato: nel lavoro mettere al primo posto la gratificazione personale invece del profitto - soprattutto nei piccoli centri, che si stanno depauperando per la mancanza di possibilità e per le distanze dalle grandi direttrici, può davvero rivelarsi una carta vincente per cambiare lo stato delle cose in un’ottica più sostenibile e migliore per tutti?

«Sicuramente sì, di downshifting a Veglio se ne è parlato diverse volte ed ho provato in passato a spingere questa filosofia per cercare di spingere qualcuno a scappare dalle città e rifugiarsi a Veglio per vivere meglio e nel contempo per continuare a lavorare, un paio di casi ci sono stati, ma a volte l’ ostacolo più grande è certamente quello legato alle nuove tecnologie ed alla scomodità di essere lontani dalle grandi arterie autostradali e da ferrovie efficienti».

Negli ultimi anni è sempre più arduo stare al timone dei piccoli comuni, in difficoltà e stretti nella morsa di direttive centrali che, a volte, non facilitano le politiche territoriali, proprio quando, invece, sarebbe importante dare ossigeno alle piccole aree per mantenerle in vita e farle rifiorire.
In un contesto contemporaneo complesso e complicato quanto coraggio ci vuole a dare vita ad un progetto innovativo che di fatto è una vera e propria scommessa?

«Il coraggio è più o meno lo stesso che devi avere per continuare a vivere in questi luoghi di montagna, dove le stagioni fredde sembrano non finire mai e quelle calde sembrano invece essere troppo brevi e dove il primo supermercato è a minimo 10 km! 
La pace, i colori delle stagioni, il suono delle campane delle mucche ed il vicino che vuole fare il baratto tra “pomodori e fagiolini” o che ti porta le uova fresche in cambio di un po' di zucchine, sono invece i lati positivi che ti aumentano il coraggio e ti fanno scommettere anche su progetti molto innovativi e basati sulle nuove tecnologie in luoghi dove tutte queste sembrano non c’entrare nulla, ma è proprio mixando bene tutti questi aspetti, nuovi e vecchi, che possiamo continuare a vivere in un paese come Veglio».

Quali sono i punti di forza e le opportunità del coworking a Veglio?

«Sicuramente il bassissimo costo per gli utilizzatori è un grande vantaggio, così come il fatto di avere la libertà di utilizzare lo spazio assegnato in assoluta libertà, senza vincoli di orari di apertura e chiusura, ognuno ha le chiavi e và quando vuole; altro punto di forza è la sinergia che si può creare, essendo uno spazio piccolo, tra i vari coworkers e di conseguenza possono anche nascere buone collaborazioni. 
È quindi una buona opportunità per chi vuole avviare una nuova attività lavorativa, soprattutto se è alla prima esperienza».

E quali, se ci sono, i punti deboli da migliorare?

«La mancanza di quello che in molti spazi di coworking viene definito il “coworking manager”  o coordinatore, che potrebbe servire nel caso si volessero avviare dei progetti comuni tra i coworkers, magari rivolti alla collettività, o di sviluppo locale. 
La posizione nella quale si trova Veglio, non favorisce l’ utilizzo degli spazi per persone che provengano da fuori zona, oltre cioè un raggio di circa 10/12 km da Veglio».

Infine, quali sono gli obiettivi di Veglio Coworking nel medio e lungo periodo?

«Uno degli obiettivi è quello di mantenere per quanto più possibile tutte le postazioni disponibili sempre occupate, pertanto occorre sempre fare un po’ di promozione al progetto stesso, l’ altro obiettivo è quello di cercare di recuperare dei fondi per poter avviare dei progetti per lo sviluppo del territorio, magari anche solo di promozione turistica e/o in merito a progetti di promozione della residenzialità, nei quali possano lavorare insieme i coworkers, il tutto per fare in modo che a Veglio si possa vivere e lavorare sempre meglio».








                                                                                                                                        

Barbara Saccagno


Eunomica Blog