lunedì 20 ottobre 2014

L'economia sociale: sulla soglia di un concetto importante per tutti


Lesson n. 1

Se dovessi affrontare tutte le ragioni teoriche per cui ci serve l'economia sociale tanto da non poterne fare veramente a meno, sarei costretto a fornire un'impalcatura etico-morale e poi dovrei perorare necessariamente la causa, - la “nuova” causa -, cercando di convincere il pubblico sull'importanza dell'impostazione.




MINESTRA INSIPIDA: NO GRAZIE

Il risultato sarebbe, nella migliore delle ipotesi, uno strano sermone sul valore morale dell'economia sociale: una minestra insipida che non nutrirebbe nessun cervello, nemmeno il mio...

Allora entrerò direttamente in argomento con un esempio che mi sembra molto appropriato: sarà un po' lungo spiegare ma ne varrà la pena, spero.


Allora non occorre allacciarsi le cinture di sicurezza, tanto potete scendere quando volete!



Stamattina sono andato in aeroporto per i miei consueti viaggi di lavoro, avevo il volo alle 07.10 e mi sono presentato al terminal alle 05.50 con il check-in già fatto, foglio intonso, fresco di stampa.

Per chi non lo sapesse, in alcune condizioni, ci si può presentare direttamente ai controlli di sicurezza, senza passare per il cosiddetto “check-in” evitando del tutto la pratica della stampa del biglietto e della consegna del bagaglio, saltando nello stesso tempo la fila più significativa del viaggio
.
CHECK IN/CHECK OUT

Rimango sbalordito dalla fila per l'accesso al volo: mi trovo davanti qualche centinaio di persone che sono tutte lì da tempo nonostante l'orario antelucano.
Il foglio mi si stazzona in mano esattamente come il mio morale.
Parte l'esame coscienziale.




F. B. «C***o, mi sono alzato alle 04.00, abito a 50 minuti di macchina da qui, mi hanno fatto perdere un sacco di tempo al parcheggio, arrivo 1 h e 20, dico 1h e 20 minuti, prima del volo e scopro che praticamente l'ho già perso e avrò un sacco di problemi per tutto questo!».


S. I. «E già, lamentati pure ma guarda che gli altri che sono qui, si sono semplicemente alzati prima di te, prenditela con te stesso che sei lento la mattina!». 


F. B. «Oh mi sono alzato alle 04.00, sono arrivato alle 05.20 al parcheggio ci hanno messo mezz'ora a scodellarmi qui perché hanno aspettato che la navetta fosse piena per fare un viaggio in meno, che vuoi da me?!».

S. I. «Poverino, uno che lo sente potrebbe pensare che non ha fatto nulla che lui è innocente: lo sapevi che c'era gente, dovevi alzarti un'ora prima ancora...»

F. B.  «Alle 03.00! ma sei pazzo!
Per tanto così prendevo il treno!
Scusa, sarei pure arrivato nel pomeriggio bello riposato e non così shakerato già al mattino presto».

S. I. «Sì, bravo commiserati, e adesso cosa farai?
Lo sai che devi andare in fondo alla fila da bravo bambino e non fare il furbo, vero? Non ti azzardare, non ci provare!».

F. B. «Senti, di necessità virtù io: non posso perdere il volo, ho un lavoro che mi attende con almeno 30 persone che mi aspettano.
Non posso semplicemente.
Mi spiace per gli altri ma devo saltare almeno un po' della coda, non dico tutta ma quanto mi basta per arrivare al gate in tempo...”.

S. I. «Che cosa?!?
E vorresti fare quello che fanno tutti?
Vuoi fare il furbo come gli altri?
Sei un mostro!».



A questo punto spengo il circuito della coscienza o del Super-io, che sparisce dalla mia mente con un urlo la cui eco accusatoria mi accompagnerà per buona parte della mattina e semplicemente mi piazzo con aria da santarellino un po' svagato a tre quarti della coda: intendiamoci, mi sento veramente una cacca e odio fare queste cose ma davvero non mi viene in mente una soluzione migliore di questa.




Mi infilo fra due inglesi che lascio accuratamente davanti a me visto lo sguardo assassino del tipo “provaci e sei morto!” e un piccolo gruppo di connazionali rassegnati che mi guardano come il solito furbetto del quartierino: proprio l'alta figura sociale e morale che vorrei incarnare e per la piena identificazione con la quale sono anni che lavoro.
Il Super-io cerca di riaccendere il meccanismo della coscienza, ma io giro la rotella sull'impostazione manuale e gli impedisco di parlare...




ATTENTI AI FURBI


I rassegnati mi sopportano con una pazienza degna di un monaco tibetano; quanto ai due inglesi, - una bella coppia tra l'altro, soprattutto lui, bel volto di mezza età occhi di ghiaccio, mi trapassa con lo sguardo e ogni tanto mi scruta con aria spavalda come a dire:
«Ce l'hai fatta eh s*****o?
Non ti hanno detto nulla ma io ti avrei spellato e messo sotto sale»”
Il Super-io ci riprova, ma io tengo ferma la rotella.

LA VOCE DEGLI ECONOMISTI

Mi guardo indietro e scuoto la testa: davvero non avrei potuto seguire la file e il mio destino a meno di perdere l'aereo.
Mi dispiace veramente per gli altri ma la soluzione che ho trovato è la meno indolore per tutta l'umanità me incluso: io non perdo un'occasione importante e tolgo molto poco agli altri, consapevole del fatto che, se tutti ragionassero così...
Rimetto in manuale e allontano la mano del Super-io che ci stava quasi riuscendo.

Sul depresso andante, penso a cosa direbbero gli economisti.
Riesco a figurarmelo benissimo.
Il classico neo-malthusiano direbbe che siamo in una classica situazione di  sovrappopolamento con troppi player per poche risorse che devono essere distribuite fra molti, l'obiettivo “dare a tutti” è improponibile.
Il neokeynesiano aggiungerebbe che c'è una tara di mercato e che è l'inefficienza dell'organizzazione probabilmente dovuta ad un prezzo del biglietto troppo basso che, a sua volta, impedisce giusti investimenti.




Il neoliberista, d'altra parte, sottolineerebbe che in realtà il prezzo va bene e che si poteva operare una scelta migliore limando i costi di produzione con alcune strategie low-cost.




Qualche osservatore radicale urlerebbe che, ancora una volta, è un difetto di sistema e che, in realtà, qualcuno vuole arricchirsi alle spalle dei cittadini o dei viaggiatori proponendo servizi che non può mantenere veramente, sfruttando la manodopera e i lavoratori, aggirando l'intelligenza del consumatore che viene messo in una posizione difficile in cui non può operare scelte razionali ma solo subire gli eventi.

Quest'ultima dichiarazione mi fa sentire meglio: non è colpa mia, io ho fatto tutto il possibile, neanche quelli che sono qui con me sono colpevoli di nulla, cercano in fondo di prendere solo un aereo e non hanno possibilità di scegliere diversamente.

Facciamo quello che possiamo con gli strumenti che abbiamo: il senso di colpa svapora leggermente.

NON È STATA COLPA MIA!

Se non fosse per questo inglese che, tra l'altro, ha l'aereo pure 10 minuti prima di me e se ne sta serafico in stato paranirvanico senza agitarsi al pensiero di perderlo!

Proprio un inglese doveva capitarmi?
Non poteva essere un levantino o qualsiasi altro con cui un italiano non ha complessi di inferiorità morale?
Mi riguarda beffardo, ma, ad un certo punto, la sua attenzione viene sviata su altri casi umani più gravi del mio: reggo il suo sguardo con un lieve sapore di trionfo.
Gli dico mentalmente, tanto so che mi sente:

«O cittadino della sacra Albione, tu che giudichi tutto con la rettitudine morale arrivata a te da generazioni di ottimi cittadini, tu mi guardi come un essere subumano ma allora come consideri gli altri?
L'hai vista quella stangona mora, stile fotomodella che dal fondo della fila è saltata in cima con aria da “adesso passo io e guai a chi mi dice qualcosa”?
Non ti sembra uno di quegli agenti della CIA che potrebbero farti fuori con una mossa di “kissà kuale arte marziale”?

Che mi dici degli “splendidi che entrano in palese ritardo nel terminal e decidono istantaneamente che loro la fila non la faranno mai e si infilano direttamente in cima?

Cosa speculare moralmente su quell'intera scolaresca che, rimasta fregata come tutti, viene indotta dalle insegnanti a saltare la fila puntando sulla precedenza etico-sociale che si deve ai bambini?

Li hai notati quei signori anziani che fingono di non capire nulla che loro, poverini, con la tecnologia non ce la fanno proprio e quindi non lo sanno proprio dove devono andare ma intanto vanno il più avanti possibile?».

Sembra avermi capito, mi sorride non più sornione, mi ha assolto: mi rilasso.

LA RIVINCITA DEL SUPER IO
Mi rideprimo, ho appeno scoperto che quella a cui ho veramente tolto il posto in realtà ha il volo 10 minuti prima del mio: comincia a rumoreggiare che non ne può più, che tutti le passano avanti, che lei non ha saltato la fila, ha fatto il suo dovere e che succede nel nostro Paese quando uno fa il proprio dovere fino in fondo?
Viene fregato da tutti, ecco cosa succede!

Mi arriva un coppino dal mio Super-io, ma io gli ricordo la necessità economica, la madre e la vera causa di tutte le scelte socio-economiche: che stia zitto lui che tanto di queste cose non capisce niente è solo un misero moralista che preferisce morire sul pezzo, piuttosto che adattarsi alle vere esigenze della vita.
Dopo la sfuriata intestina, mi sento meglio.

L'inglese poi mi sta sorridendo benevolo: “non sei in fondo così cattivo, guarda quanti altri s*****i, tu hai fatto male ma poi non così tanto...

Gli sorrido grato e più leggero ma non riesco a sostenere moralmente lo sguardo della mia connazionale dietro di me e con l'aereo prima di me, quella a cui io ho tolto un minuto di coda!

Ehi, ma che succede?
Vengo lievemente spintonato da uno che cerca di infilarsi alla chetichella con aria gentile: riconosco il patetico tentativo di un improvvisato nello stile “vorrei fare la fila ma non posso e ti chiedo almeno il permesso ma tu un po' me lo devi altrimenti  io perdo l'aereo e sei tu lo s*****o!

Proprio non ci sa fare: intanto non è della nazionalità giusta per essere credibile, poi finge troppa umiltà e condiscendenza, mostra a tutti il biglietto, si giustifica con eccessiva affettazione ma con l'inglese non c'è niente da fare!
Senza nemmeno scomporsi, questo gli dice nella sua lingua che l'altro non capisce o finge di non capire, che anche lui ha lo stesso problema e che la fila è per tutti, è una questione di civiltà: lo educa come fosse uno scolaretto colto in fallo, voce pacata, modi gentili ma la più ferma fermezza.
L'altro, abbacinato da cotanta lezione di civiltà plurisecolare, rimane bloccato o meglio paralizzato, chiedendosi come fare ma intanto è arrivato almeno davanti a me.
Voglio dire ne ha fatta di strada.

LEGA ITALO BRITANNICA vs PASSEGGERI SFIGATI
                        1                   –                       0

Ma che altro succede?

Due splendidi si stanno infilando direttamente in cima alla fila senza nessun riguardo: sta per intervenire l'inglese ma lo precede una signora di una certa età, stile professoressa con aria decisa che li blocca richiamandoli al loro dovere.
Gli splendidi non arretrano e fanno resistenza.

Intuisco pezzi di frasi:
«Ma che dobbiamo fare?
Oh! c'abbiamo il volo?!?
Lo volete capire?»

L'accento partenopeo non li aiuta decisamente e la prof. incalza sostenuta dall'inglese che non parla italiano ma si fa capire benissimo.
Intanto il fermato dall'inglese assume un'aria da recluso di Alcatraz, un misto di rassegnazione e di desiderio di fuga...
La lega italo-britannica respinge gli splendidi che sono costretti a mollare qualche metro di fila.
Qualcuno commenta a voce alta: «ma scusate perché non fate il fast track?»


Sapevo di questo servizio ma credevo che si trattasse di qualcosa che si compra all'atto dell'acquisto del biglietto, non dopo e tanto meno lì, quando sei già stato fregato...

Senti, senti scopro che in realtà si può accedere ad una fila molto minore pagando solo 10 euro: mi riprometto di approfondire.


LA DURA LEGGE DEL GOAL


Siamo giunti nella parte terminale dell'interminabile coda del terminal: si vede la meta ormai, si è confortati dal fatto che noi almeno ce l'abbiamo fatta e con la tristezza mista al sadico piacere di chi è ormai oltre.

Il recluso, il fermato dall'inglese, ha un guizzo, alza gli occhi al cielo e con sguardo vuoto si infila tra le transenne direttamente alla fila del metal detector.
Si è salvato.

Riflessioni sulla condizione umana gravano sulle nostre menti e sui nostri cuori:
Cosa avremmo potuto fare di diverso?
Come aiutare gli esclusi, gli “atterriti” e gli “atterrati” come evitare che diventino altrettanti “atterroristi”?
Intanto però decido di approfondire sul fast track e fermo una hostess che mi conferma che sì, si può fare  al costo di 9 euro e lì alla cassa a 10.

Come tutti, mi annoto mentalmente che la prossima volta avrò almeno due opzioni:

opzione uno, alzarmi alle 3 come proposto dal mio simpatico Super-io

oppure

2 opzione due, pagare 10 euro e respirare sereno.

Già ma se poi tutti scelgono la seconda come farò ad evitare l'ulteriore coda?
Boh, chi vivrà vedrà!

LO SCOPRIREMO SOLO VIVENDO

Siamo al metal detector, l'inglese che, sotto la sua giacca, rivela una camicia stazzonata e fuori dai pantaloni, non ha messo la cintura nell'apposita vaschetta, cerco di aiutarlo come posso ma lui non fa sconti, mi tratta come se fosse nel suo buon diritto – come in effetti è – di avere una vaschetta aggiuntiva e non ha bisogno di aiuto.
Che palle però!

È tutto pieno ma siamo salvi e questa consapevolezza ci rende pazienti e capaci di sopportare tutto anche il fatto che ci trattano come viaggiatori di terza classe rispetto a quelli che hanno usufruito del mitico fast track  i quali entrano al metal detector come se fossero iscritti ad un club esclusivo.


GLI EROI DI HOGAN

Finalmente arrivo al gate 10 minuti prima del mio volo!
Ce l'ho fatta, è stata già una lunga giornata.
C'è uno dei miei compagni di prigionia che mi guarda severo, si ricorda ancora che ho fatto il furbo.
Distolgo lo sguardo e chi vi vedo?
La stangona fotomodella, la probabile agente CIA che aveva saltato la fila a piè pari, che placidamente seduta sta sbocconcellando una colazione con tutta la calma del mondo. Aveva tanta fretta evidentemente di fare colazione, penso amaro.


Vorrei telefonare all'inglese e denunciarla ma faccio parte anch'io dei rei e non posso permettermi una reclusione in un carcere britannico: devo mandare giù il rospo morale.

Consegno il biglietto al gate, mi sembra il giorno in cui mi sono laureato e mi hanno proclamato dottore: provo un grande senso di liberazione. Io comunque sia ne sono fuori, ho vinto.

NON È TUTTO ORA QUEL CHE LUCCICA

Mentre assaporo questa ebbrezza, ecco che arriva un tizio ansante e trafelato: si guarda in giro in cerca di un volto amico, gli sorrido, mi inquadra.

«C***o non si può cominciare così la giornata, mi verrà un infarto e solo per prendere un aereo, e pensare che ho fatto pure il fast track!».
Questo mi colpisce e gli chiedo perché ha dovuto correre se aveva comprato il magico servizio saltacoda.
«Quella m***a di macchinetta si era inceppata e non accettavano i contanti, solo carte di credito o bancomat e ci tenevano lì.
Se fossimo rimasti in fila normalmente, avremmo fatto prima…».”
Bisogna che riveda un momento l'opzione due...

Voi a questo punto penserete tante cose spero più gentili di:
«Ci hai fatto perdere un quarto d'ora con sta p*******a” »;
«Se hai questo dialogo interiore, ti sei rovinato da grande o sei caduto dal seggiolone»;
«Benvenuto nella realtà, siamo circondati da s*****i e tu ne fai parte»;
«E così, hai saltato la fila, brutto b******o».

Intendiamoci, sono tutte reazioni comprensibili, però la sentenza peggiore, quella che proprio non potrei accettare, è:

Gli economisti hanno ragione”.

Quanto precede non mi offende, - non può offendermi – perché umanamente contemplabile.

Rispetto alla mia salute mentale, va detto che sono sposato con uno psichiatra, il che aiuta decisamente perché c'è il conforto del tecnico a casa, pur appesantito dalla certezza della diagnosi che, invece, disillude bruscamente.

No, il problema vero è che invece potete credere a uno o più dei pareri che vi ho riportato nel racconto, per intenderci dal neomalthusiano all'osservatore radicale.


Può sembrare un problema da niente, qualcosa per cui non vale la pena scrivere o procedere con la cultura ma crederci genuinamente e costruire la propria/altrui esistenza o regolare la convivenza civile su basi intellettualmente così piccole, ci toglie la speranza e, nello stesso momento, ci condanna davvero al cinismo di cui l'economia si nutre.


IO E/O NOI?

Tutti crediamo nel teorema che l'economia sia il perseguimento dell'interesse egoistico contro quello sociale ma alla fine chi lo ha detto?
Chi lo ha sancito per tutti noi e nello stesso tempo?

Perché dovremmo accettarlo come se fosse un fatto atavico, ineluttabile, quasi “genetico” nella razza umana e quindi incontrovertibile?

L'esistenza, - e meno male!- è molto più complessa e varia di un pensiero solo tra l'altro vecchio di secoli e mai veramente aggiornato: perché non dovremmo mettere in discussione un teorema che pur nella sua apparente razionalità ci fa vivere meschinamente?

Si tratta solo di ripensare e riprogettare anche se prima dobbiamo capire e darci una direzione.
Questo è lo scopo di questa serie di appunti.
Ma lasciatemi spiegare perché l'ho fatta tanto lunga con aeroporti e code al terminal.


IL TEOREMA DELLA FILA IN ATTESA

Se noi riduciamo la storiella che vi ho appena raccontato e che avete avuto la pazienza di leggere, all'oggettività del teorema, cosa troviamo?

In un contesto puramente sociale, ci sono dei soggetti che interagiscono in condizioni tali per cui le informazioni non circolano completamente e perfettamente e le risorse vengono allocate non esattamente tanto da generare la sensazione che siano scarse rispetto al richiesto e all'atteso.

La frustrazione della domanda – come direbbero gli economisti - e le poche alternative inquadrabili sulla base delle informazioni in possesso della media dei partecipanti determinano una condizione di rigidità e di difficoltà di cui tutti i soggetti possono avvertire la limitazione.

La soluzione economica più semplice e che sembra risolvere, è quella di trasformare il bisogno così generato in un servizio di cui si può godere proprio per evitare la frustrazione.

È proprio semplice, basta pagare qualcosa in più e si è fuori dal problema: è la soluzione più adottata oggi dall'economista o dal decisore pubblico e privato.
Dietro questa apparente semplicità, ci sono però tante importanti decisioni prese inconsapevolmente:

1 non si prende la frustrazione come un segnale ambientale da comprendere bene per cambiare le cose, si pensa che sia una variabile non eliminabile: è un dato ambientale e non un segnale;
2 la generazione di un servizio per togliere la frustrazione determina la presenza di un gruppo di esclusi che dovranno subire la situazione in tutta la sua rigidità e a niente varrà l'aver tolto dalla quota totale i pochi che impiegheranno il servizio;
3 non si valutano alternative (progetti, proposte, idee) che possano rendere migliore la condizione di tutti: si rimane sull'idea del servizio che sembra essere più facilmente gestibile, senza pensare di poter fare meglio;
4 di fronte all'aggravarsi della situazione e all'incapacità di migliorare il servizio, l'organizzazione delle risorse si rivela insufficiente ma non si ritiene di poter intervenire con un'organizzazione di livello superiore: si pensa che i consumatori adotteranno strategie migliorative in quanto soggetti intelligenti o che addirittura il servizio, pur insufficiente, sia una nuova entrata;
5 banalmente non si forniscono nemmeno le informazioni di accompagnamento veramente in grado di cambiare la percezione del dato reale in modo, ad esempio informando del problema al momento del check in online;
6 il consumatore sarà quindi indotto ad una serie di scelte non creative tipiche dei contesti violenti che si tradurranno in comportamenti non capaci di migliorare la condizione stressante e che sono riconducibili a questi: accettazione rassegnata, accettazione rivendicativa, non accettazione con strategie di miglioramento individuale con poco danno degli altri, non accettazione con strategie di miglioramento individuale e danno maggiore per gli altri.

Per l'economista il problema era già stato risolto con il servizio e l'aziendalista, come l'operatore commerciale possono addirittura arrivare ad ipotizzare un vantaggio competitivo e una frammentazione dell'offerta ottima per produrre margine o economicità per l'azienda.

NON SPARATE SUGLI ECONOMISTI

Io non ce l'ho con la categoria degli economisti e proprio con nessun economista in particolare, non ho motivo di rancore verso aziendalisti, politologi, commercialisti, fiscalisti, decisori economici, statalisti, statistici, statisti.

Lo dichiaro apertamente: il mio nemico è il cinismo diventato regola di comportamento razionale e auspicabile - perché di questo si tratta in ultima analisi – che demotiva la gente a cercare soluzioni migliori e più capaci.

AIRPORT CASE HISTORY

Nel caso in esame, il profilo delle decisioni assunte, probabilmente inconsapevolmente e solo per routine, produce una certa sfiducia da parte del consumatore che può cogliere la possibilità più ampia di scelta che gli spetterebbe naturalmente e, per contro, la riduzione del suo diritto ad un servizio a pagamento che grava su di lui per consentirgli un semplice accesso al gate e – si badi bene - non per un valore aggiunto reale.

L'economista, in ultima istanza, crede che il consumatore sia solo accettante e rassegnato e che si farà furbo con l'esperienza: non immagina, per esempio, che un soggetto possa decidere di non usare più l'aereo o quella compagnia o che possa usare gli stessi servizi con comportamenti distratti e negligenti che alla lunga deteriorano gli aeromobili o gli spazi dedicati più in fretta di quanto sarebbe normale o, ancora, che addirittura arrivi a creare strategie antisociali (i famosi splendidi o le agenti CIA) che aggravano la condizione generale.

Sembra non interessargli la sofferenza, la lieve e la grande, come se non fosse un suo problema e nemmeno si preoccupa del fatto evidente che tutto ciò produce una massa di consumatori scontenti che non adotteranno più i servizi a valore aggiunto (il volo in questo caso).

Alla lunga, la compagnia potrebbe essere costretta a determinare delle politiche di attrazione della clientela con leve diverse, diminuendo il prezzo solo per alcuni orari o combinazioni di tratte, con una fatica di progettazione crescente.

Ma, in fin dei conti, tutto questo si rivelerebbe temporaneo e inutile perché non si è voluto considerare debitamente la variabile più importante: la dimensione sociale.

Questa ha poco a che fare con social media, sms inviati in orari assurdi o moduli informatici di feedback, no, si comincia a cogliere questa dimensione quando ci si propone di progettare onestamente il servizio pensando davvero di essere uno di quei disgraziati che si sono alzati alle 04.00 e volevano prendere l'aereo alle 07.10.










Francesco Bernabei

Credits Images: Openphoto. Net (Meal – Miroslav Vajdić); Eunomica (Volandia, Stones, Light, Bonda, Hand, Chioggia, - Gargoyle, Place Messena, Palazzo Mazzetti, Wool – B. Saccagno). Vettorialigratis.it (Walking People, Pittogram signs – All Silhouettes; 30 icone educazione scuola educational icon set – danocreative, Angeli con campane - s.a., Sexy Woman – s.a), Imagebase.net (Imaginebase25 82 – s.a., Grieving man statue – s.a.), Wikipedia (Union Jack); Alamy (CRC8EP – Sean Gladwell Premium)

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giovedì 9 ottobre 2014

Intervista a Francesco Bernabei





Ideatore e autore de La Musa Offesa, presidente di Eunomica
http://eunomicaapc.blogspot.it/p/la-musa-offesa.html 


Francesco Bernabei sei un uomo poliedrico, fra i tanti progetti che idei e realizzi c’è anche un “libro”, o, forse meglio, un “meta-libro”, dal titolo accattivante La Musa Offesa, ci presenti la protagonista?

«Io non sono scrittore nel senso pieno del termine, perché non ritengo di possedere una capacità di scrittura tale da creare un prodotto “artistico” buono, scrivo per necessità.
Scrivo per esprimere dei concetti che sono la sintesi elaborata lungo i miei percorsi culturali, diciamo che sono l’output del mio lavoro di sviluppatore sociale, o meglio culturale, che si occupa di sviluppare un concetto culturale per mezzo di azioni o proponendo delle idee.
Quando, però, tratto un’idea che può cambiare il software del sistema culturale devo scrivere, sono costretto!
Anche perché è l’unico modo per lasciare a tutti la possibilità di inserirsi nell’ottica dell’idea, comprenderla e condividerla.
Per questo La Musa Offesa è un libro open source, dove si può entrare facilmente perché si conosce il codice sorgente ed, inoltre, se l’avessi impostato come un saggio di economia classico, avrei di certo perso del pubblico: io per primo, ad esser sincero, mi sarei annoiato perché l’economia è sempre presentata in modo “palloso”, mentre a me piacciono i giochi e così l’ho trasformata in un testo diverso che sicuramente mi ha dato modo di incontrare un numero maggiore di lettori.
Riguardo alla Musa che porta il nome di Eunomia Ενομα - che credevo di aver inventato io elaborando termini di origine greca seguendo la logica del suo significato intrinseco - ,  ho poi scoperto che esisteva già nella mitologia classica: essa è, di fatto, la voce della coscienza collettiva, creata ovviamente dall’autore ma che si rivolge a tutti, spiegando le logiche economiche partendo dal “buon senso”.
Eunomia è anche un asteroide che passava per una curiosa e casuale congiuntura astrale il giorno in cui ho deciso di iniziare a scrivere il testo con il suo nome: questo mi è parso “un segno” positivo.
La Musa non dà risposte concrete ma alza il livello culturale insegnando a guardare ai paradigmi precostituiti dell’economia in modo diverso, ad osservarli meglio perché, forse, anche noi contemporanei dovremmo chiedere a lei l’ispirazione per trovare risposte migliori in campo economico, come facevano nell’antichità aedi e cantori».

Quando e perché hai deciso che era giunto il momento di scrivere la tua visione dell’economia sociale in forma di racconto?

«C'è stato un momento preciso in cui tutti mi chiedevano del materiale scritto di approfondimento ed io non ne avevo molto, tra l’altro alcuni testi erano quasi introvabili o, comunque, non facilmente reperibili.
Anche gli amici mi suggerivano di scrivere ma io avevo delle remore, perché quando scrivi occupi dello spazio ed inoltre si tratta di un processo d’incontro fra l’autore ed il lettore e dovresti avere dei lettori interessati.
Il momento è arrivato nel 2007, quando ho dovuto mettere in chiaro gli output culturali che avevo raccolto e non trovavo il giusto approccio: allora ho deciso di scrivere un racconto dedicato all’economia, non ho scelto il saggio tout court perché non mi ritengo un esperto di economia tale da poter stendere un testo tecnico specialistico.
Quell’anno ho scritto buona parte del libro ed ho iniziato a farlo circolare tra persone interessate all’argomento: questo posso dire che è stato l’incipit de La Musa Offesa».


Spiegare i concetti basilari dell’economica, reale e sociale, di fatto semplici e, forse, per questo così complicati da chiarire, non è una cosa facile; come sei riuscito a trovare la chiave d’equilibrio fra il contenuto di spessore, più adatto ad un saggio, e la forma più leggera e ironica del racconto letterario?

«Il racconto permette all’autore di costruire delle situazioni pratiche dove immaginare il protagonista e gli altri personaggi inseriti in determinati frangenti o circostanze: queste situazioni artificiali hanno il pregio di facilitare la spiegazione dei concetti meglio di altre tipologie di testo.
La Musa fornisce delle risposte alle domande che le vengono poste oppure dà delle idee mentre il co protagonista, il precario in crisi è quello che vive il problema economico contemporaneo, è il soggetto attivo.
Il loro confronto, scritto con un ritmo divertente, è elaborato con un sistema di scatole cinesi, dove in ogni capitolo si affrontano temi riguardanti i fondamenti dell’economia.
Alla fine non hanno risolto le grandi questioni ma i personaggi danno modo di avviare una riflessione diversa, aprendo nuovi scenari.
Se ci sono davvero riuscito, non lo so, posso dire di essere soddisfatto, forse, si può fare di più ma, essendo un libro open source, potrò rimetterci le mani in futuro e ripensarlo in altra maniera».

La Musa Offesa non è un libro nel senso tradizionale del termine, è più un esperimento di cultura compartecipata, di conoscenza trasversale di concetti fondamentali per l’economia e la cultura sociale. Un racconto/romanzo, un dialogo in divenire.
La Musa Offesa è mutato dalla prima versione, si è arricchito sotto la guida dell’autore, si è trasformato, dalla prima stesura a quella attuale, attraverso l’interscambio di esperienze e di idee degli “Al.”, i co autori che in forme, tempi e modi diversi vi hanno partecipato.
Ma non può nemmeno dirsi un testo a scrittura collettiva in senso totale.
Vuoi spiegarci esattamente cos’è il progetto La Musa Offesa?

«Allora, il progetto nella sua linea teorica è la tappa intermedia del cambiamento sociale che porta l’economia ad essere appunto un fatto sociale: in linea pratica ha originato l’Associazione Eunomica, nata con un gruppo di lettori del libro, convinti che si potesse ragionare su queste questioni seguendo un percorso meno dottrinario e più collettivo o compartecipato.
Il libro è uno strumento secondario, forse non è necessario leggerlo, perché con Eunomica ci sono progetti concreti che seguono le riflessioni del La Musa Offesa.
Il racconto non è stato per adesso un’occasione di scrittura partecipata perché non sono riuscito a mettere veramente in pista questo sistema di scrittura: intendiamoci, ho ricevuto tanti consigli e letture critiche di cui sono grato ma non ritengo sia un esperimento ancora riuscito di scrittura collettiva.
È comunque uno strumento ideato per aprire la via della partecipazione, forse, è questa la vera anima de La Musa Offesa».

È passato, ormai, un po’ di tempo dalla prima stesura a all’ultima.
Il libro è stato letto, modificato, ripensato, ha avuto, e ha, una sua vita letteraria ben definita: che bilancio ne trai, ad oggi, del percorso de La Musa Offesa?

«È stato letto da qualche centinaio di persone, un tempo, all’inizio, tenevo il conto dei lettori per capire come si potesse muovere un libro nato dal nulla, senza supporti editoriali, sono arrivato a contarne sino a trecento, ho avuto diversi feedback tecnici di lettori interessati ma non sono uno scrittore e seguo logiche diverse: di certo volevo che fosse letto.
Il risultato positivo è che è stato caricato sul Web dal 2008 ed è ancora letto, alcuni mi fanno ancora domande sulle tematiche espresse nel libro.
Non so se avrà un futuro ma mi piacerebbe un giorno continuarlo, d’altronde nella prima stesura il precario non aveva nemmeno un nome, la Musa rimaneva sospesa fra il reale e l’irreale e la fine è stata scritta a distanza di anni: una scelta dettata dal desiderio di dare un equilibrio al racconto, per non mandarlo in crash.
Ma se penso alle opere di Jean Jonò, l'autore dell'Uomo che piantava gli alberi, dove uno stesso personaggio muore e ricompare vivo in un’altra storia, mantenendo le sue peculiarità, allora posso pensare di riaprire La Musa Offesa in futuro.
Sicuramente mi sono stati dati idee e spunti per il libro, più che interventi veri e propri, così il testo ha mantenuto la sua identità di testo “teatrale” come è stato definito, ma di fatto quello che voglio è che il suo percorso sia quello di Eunomica, ossia quello che dovrebbe essere l’economia contemporanea».

Perché hai scelto di non pubblicare La Musa Offesa con un editore tradizionale, né con il self publishing, ma hai optato per una libera circolazione del testo, disponibile solo on line in free download?

«Vi è mai capitato di volere leggere un testo ma o costa troppo e non puoi permettertelo oppure non è facilmente reperibile? A me sì e molte volte!
Ecco, quando ho deciso di scriverlo ho pensato a tutti quegli autori che mettono a disposizione sul Web i loro testi gratuitamente ed alla frustrazione di non riuscire a recuperare libri datati, fuori commercio o difficilmente disponibili on line.
Volevo fare della cultura e renderla liberamente, e facilmente, disponibile, senza pagare nulla, come hanno fatto i vecchi internauti, che ringrazio, mettendo in rete testi preziosi ed importanti ma poco accessibili.
Inoltre è il biglietto da visita dell’Associazione Eunomica, è dal nostro sito che si può scaricare in download.
Avrei potuto pubblicarlo, ci sono state delle possibilità, ma alla fine ho deciso di non farlo perché l’avrei reso più debole e poi ho pensato alla generosità, perché è un’apertura, se tutti diamo qualcosa quando ne abbiamo ragionevolmente la possibilità, allora c’è scambio, altrimenti se ci chiudiamo non abbiamo più la possibilità di scambiare nulla.».

Nell’antichità la Dea era colei che presiedeva una precisa attività/azione/sentimento umano o naturale, colei che proteggeva e a cui chiedere perdono o invocare l’aiuto (così come colei che puniva, se lo riteneva opportuno, naturalmente), mentre la Musa sovraintendeva le Arti, era colei che donava l’ispirazione divina all’uomo per creare.
Nel racconto Eunomia possiede entrambe le caratteristiche, quindi, a lei ci rivolgiamo indirettamente, a te direttamente, cosa dovremmo fare oggi, a livello di buona economia, per uscire da questa crisi, più creata a tavolino che reale, o, per lo meno, per iniziare a cambiare il punto di vista?

«La prima cosa che mi viene in mente da dire è che quando crei l’espediente letterario della Musa vuoi spingere a guardare in alto, alzando il livello, il contrario esatto di cosa fa l’economia oggi, che toglie all’altro i beni necessari per seguire le leggi del mercato, invece, si dovrebbe scambiare a livello paritetico: in questo modo tutti sono “contenti” perché si genera un equilibrio.
L’equilibrio deve essere alla base del concetto tecnico che regola il mercato, perché così questo funziona meglio, come stanno dicendo negli ultimissimi anni alcuni economisti, sebbene tanti la definiscono ancora pura utopia: ma, in ultima analisi, perché mai?
E chi può dire davvero, assumendosene la responsabilità che non sia davvero così?
Oggi bisogna lavorare sui fondamenti dell’economia e metterli in dubbio, a partire, ad esempio, dalla povertà artificiale creata a vantaggio della ricchezza, i vantaggi truffaldini che regolano la moneta ancora oggi, la competizione e via dicendo.
Ipotizziamo di essere tutti “amici” e volessimo o dovessimo creare una situazione di mercato, faremmo davvero come facciamo oggi?».








Barbara Saccagno

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